Arte & Mostre

Cimabue: torna al suo posto il «predicatore muto»

Il Crocifisso di Cimabue torna al suo posto, a dominare dall’alto dell’abside la Basilica di San Domenico, nel cuore di Arezzo. Resta dunque poco tempo per ammirarlo ancora ad altezza d’uomo nell’apposito percorso allestito sul fianco sinistro della chiesa. La ricollocazione del capolavoro è fissata alla vigilia dell’ultima domenica dell’Anno liturgico e festa di Cristo Re, sabato 23 novembre. Mentre la mostra sarà spostata nei nuovi locali di esposizione in via San Domenico. La scelta di novembre è dettata anche da una nuova illuminazione e dalla necessaria sostituzione delle vetrate dell’abside della basilica domenicana che accoglierà il Cristo «rivoluzionario» di Cimabue.Era all’incirca la metà del Duecento quando il giovane artista toscano imparava a dipingere osservando con interesse le tecniche di quegli artisti dei quali però non condivideva lo stile. Tanto che intorno ai vent’anni, chiamato dai domenicani a dipingere un crocifisso per la Basilica di San Domenico si allontanò dal modello bizantino creando qualcosa di profondamente nuovo. Molti storici dell’arte oggi sono concordi nell’affermare che proprio da questo crocifisso partì quella rivoluzione che avrebbe portato al Rinascimento fiorentino e, da lì, all’arte come la intendiamo oggi.

Ma l’opera di Cimabue pretende anche una considerazione sul suo valore d’icona: «Nell’ampia tesissima curva descritta dal carpo trafitto di Cristo, nel contrarsi spasmodico delle muscolature, nel volto segnato dalla sofferenza, nell’atroce inarcarsi delle membra del Cristo, è perfettamente evidenziata – ebbe a dire il vescovo di Arezzo-Cortona-Sansepolcro, Gualtiero Bassetti – la realtà dell’uomo dei dolori: colui che come dice Isaia, conosce il patire e porta su di sé i pesi di tutti: “Disprezzato e reietto dagli uomini. Uomo dei dolori che ben conosce il patire… disprezzato…. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui: per le sue piaghe noi siamo stati guariti”. Il genio di Cimabue ha saputo comporre con linee e colori una muta praedicatio. Una predica cioè senza parole. E non a caso il Crocifisso è nella chiesa aretina dei frati predicatori. Muta praedicatio che oggi più che mai ha il suo compito, la sua indubbia efficacia formale, di affiancare, di completare, di fermare nel nostro spirito il senso, altrimenti vuoto, di tanti devoti discorsi, di molte pie riflessioni di più o meno dotte esegesi. Questo Crocifisso, per un commovente miracolo di fede e di arte, è davvero una ininterrotta invocazione pittorica, una continua preghiera visiva, rivolta attraverso Cristo crocifisso al Padre misericordioso».

Anche chi non crede non può non essere coinvolto tanto dal soggetto quanto dalla qualità dell’esecuzione, dall’immane portata del messaggio di amore e di pietà che rappresenta. Gli aretini ne sono coscienti, così come riconoscono la fortuna di custodire l’opera di Cimabue di gran lunga meglio conservata, grazie anche all’ultimo prezioso restauro. Cimabue, infatti, come sostiene lo storico dell’arte Luciano Bellosi, «è un pittore estremamente sfortunato. Molte sue opere sono andate perdute e quasi tutte quelle che sono arrivate a noi si trovano in uno stato di conservazione miserevole. Il Crocifisso di Santa Croce, giunto pressoché intatto ai tempi nostri, è stato quasi distrutto dall’alluvione di Firenze del 1966. Nel settembre 1997 il terremoto ha fatto crollare una delle lunette della volta degli Evangelisti nella Basilica di San Francesco ad Assisi, la chiesa che ci conserva una sua grande complessa decorazione murale, peraltro anch’essa molto malandata. Sicché si può dire a ragione che il Crocifisso di San Domenico ad Arezzo sia la sua opera di gran lunga meglio conservata» e il restauro «ne ha rivelato meglio le ottime condizioni e ha riportato alla luce colori che si erano oscurati».

Con orgoglio, nell’aprile dell’anno scorso, la soprintendente Anna Maria Maetzke presentò al pubblico e agli studiosi l’«altissimo capolavoro recuperato nei suoi smaglianti e straordinariamente ben conservati valori cromatici dopo un restauro realizzato con estrema consapevolezza, alta professionalità e sensibilità». Con il giusto orgoglio, gli aretini ripropongono ora al mondo il loro stupendo Crocifisso.S.M.