Cultura & Società

Addio ai parrucchieri, aboliti per legge

DI LORELLA PELLISShampoo, forbici, pettine, spazzola, rasoio, bigodini e phon. Se fino a ieri ad utilizzare gli attrezzi del mestiere erano il barbiere – per l’uomo – e la parrucchiera o il parrucchiere – per il gentil sesso – da oggi (udite udite) si cambia musica.

A prescindere dal cliente di turno infatti (uomo, donna, bambino che sia), il mago del taglio cambia nome, diventa «acconciatore» e basta e, per essere insignito di tale «titolo», deve seguire un corso vero e proprio con tanto di diploma.

A stabilirlo è una nuova legge (la numero 174) concernente appunto la «Disciplina dell’attività di acconciatore», approvata lo scorso 17 agosto e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n°204 del 2 settembre. Cala dunque il sipario su parrucchieri e barbieri che diventano «fuorilegge» a tutti gli effetti.

Ma cosa fa, in dettaglio, un acconciatore? «L’attività professionale di acconciatore – recita la legge all’articolo 2 – comprende tutti i trattamenti e i servizi volti a modificare, migliorare, mantenere e proteggere l’aspetto estetico dei capelli, ivi compresi i trattamenti tricologici complementari, che non implicano prestazioni di carattere medico, curativo o sanitario, nonché il taglio e il trattamento estetico della barba, e ogni altro servizio inerente o complementare».

L’acconciatore, insomma, viene considerato un professionista vero e proprio che conosce a menadito le tecniche per eseguire mèches e permanenti su capelli corti e lunghi, applicare tinture utilizzando una vasta gamma di colori nonché realizzare tagli di barba e capelli di vario genere. Ma chi acconciatore vuol divenire qualche pena deve patire e allora ecco un periodo di formazione più lungo e un successivo esame tecnico-pratico. A questo proposito l’articolo 3 («abilitazione professionale») della norma stabilisce che l’esame tecnico-pratico deve essere preceduto dallo svolgimento di un corso della durata di due anni, seguito da un percorso di specializzazione di contenuto pratico ovvero da un periodo di inserimento della durata di un anno presso un’impresa di acconciatura.

A questo punto ci viene il sospetto che insieme alla nuova figura dell’acconciatore arriveranno anche nuove tariffe che presumibilmente dovranno adeguarsi al nuovo rango. Chissà se tutto questo farà mutare le abitudini delle signore ma anche dei signori italiani che ogni anno spendono più di 7 miliardi di euro – o giù di lì – per capelli e corpo. Niente comunque, in proporzione, a quel che costerà ai sudditi inglesi l’«hairdresser» al seguito di Camilla, in viaggio negli Usa col suo Carlo e un nutritissimo codazzo, quasi da «Finanziaria bis». E se il paragone non calzasse… beh, almeno per i maschietti resta sempre il «fai da te», soprattutto per chi ama la fortunata moda del cranio rasato. Come Luca Zingaretti nel «Commissario Montalbano» che, a un eventuale interlocutore che gli chiedesse chi l’ha «acconciato accussì», risponderebbe probabilmente di «non scassare i cabasisi» e di considerare invece l’acquisto di una macchinetta tagliacapelli come opportuna rivalsa contro chi manderà nel dimenticatoio i barbieri e i loro prezzi tutto sommato ancora popolari.

Ma una volta il barbiere di paeseera al centro della vita socialedi Mauro BanchiniC’era una volta Alberto, barbiere in San Marcello. E c’è sempre, anche se il negozio ora risponde al figlio e lui dice di limitarsi a dare una mano. Accoglie con un sorriso, una battuta, un ricordo; è stato il mio primo barbiere. Mi ci portavano quando, bambino, sulle poltrone grandi non ci arrivavo: mi faceva salire su uno sgabello a forma di cavallino, meglio della giostra. «Lo sai – mi disse tempo fa – che quel cavallino ce l’ho ancora? Lo vorresti vedere?». Accidenti sì, se lo vorrei vedere.

Da quel destriero di cartapesta ho cominciato a gustare l’antica e avvincente atmosfera dei «barbieri» di paese: spazi rigorosamente per uomini (o per bambini sul cavallino). Lì si parlava di cose serie. Soprattutto di sport, ma anche di pettegolezzi, anche di donne. Lì c’erano i clienti fantasma, quelli che stavano ore senza usufruire del servizio: né barba né capelli, ma giornale a sbafo, riviste semi-hard, calcio, ciclismo. C’era, e credo ci sia ancora, uno tifosissimo del Toro: è da lui, non da Biscardi, che ho conosciuto l’arte di ragionare ore su una partita ancora da giocare.

Il mio problema era non farmi spruzzare la «brillantina». Mi sembrava puzzasse e poi erano gli anni Sessanta; i capelli andavano lunghi, impomatarli era out.

Da Alberto ho visto, bambino, gli ultimi calendarietti: modesti ceppi natalizi, offerti in cambio mancia, pieni di nudi femminili che a vederli oggi farebbero sghignazzare. Ma di quei calendari, da mettere nel portafoglio insieme col santino di Gesù Bambino, bisognava sentire l’odore, immersi com’erano in profumi a buon mercato.

Dal barbiere trovavi le stesse persone impegnate nelle stesse chiacchiere. Sono sempre rimasto affascinato dalla ricchezza e dalla passione di quei discorsi. Ricchezza e passione che poi ho ritrovato nel negozio di Amelio e Massimo.

Uno si sposa, va a stare in pianura e una fra le prime, dure, scelte di campo è proprio quella: quale preferire fra i barbieri che lavorano al Poggio? Segui il consiglio del suocero e vai da Amelio & Massimo. Accanto c’è un bar dove si gioca a carte. Scopone o roba simile.

Ci vado da trent’anni. A costo di sembrare antipatico, non apro bocca: troppo contento per quello che respiro, direi solo fesserie. Tolgo gli occhiali, chiudo gli occhi, ascolto. Precipitando nello splendido microcosmo di una provincia autentica che parla di calcio e ciclismo, di cinema e tv, di abbuffate e pensioni, di colesterolo e donne, di alta finanza e politica estera, di viagra e padre Pio.

Ci si accalora, dal barbiere. Si alza la voce, girano i vaffa, si fa pace subito. Si esalta un campione che un’ora dopo è solo un brocco. Massiccio l’uso di forme dialettali (andonno, tornonno, enno).

C’è quello che fa finta di avere un sacco di donne e c’è il parente di Narciso Parigi che come canta lui porca troia ‘un c’è rimasto nessuno, quelli che sanno a memoria tutte le battute degli spaghetti western e se le gridano da una parte all’altra del negozio, quelli che tifano viola e non gli va mai bene nulla, quelli che parlano sempre del loro fegato, quelli che raccontano vittorie a scopa, quelli che aspettano che uno vada via per dirne male, quelli che raccontano Porta a Porta (attenti, politici, i commenti non sono mai sulle vostre opinioni ma sempre sulle «opinioni» delle attrici). Uno è esperto di Busheee, un altro sa dove fanno i funghi, uno parla di filosofia.

Un mio amico politico, che abitava a Pistoia e che ora non c’è più, a tagliarsi i capelli veniva spesso qui. «Mi diverto un sacco e imparo tante cose vere», spiegava.Ogni tanto capita un moccolo. Bestemmie così stravaganti che meriterebbero un premio. Escludo l’intenzione di offendere sul serio Gesù, Maria, il Padreterno e tutti i santi: pure Ratzinger, sono convinto, proverebbe gusto davanti a moccoli pratesi così pieni di immaginazione e di affetto.In mezzo secolo è cambiato tutto. Ma ora che i «barbieri» scompaiono addirittura per legge, in quei negozi (almeno in quelli di paese, per quelli di città non sono attrezzato) l’aria di fondo è sempre la stessa. Spero non cambi troppo. Creme e spray invece dei soliti panni cottidi Giacomo CocchiL’insegna recita: «Claudio parrucchiere per uomo», ma noi siamo qui per incontrare Giuseppe Basta, anzi Beppe come lo chiamano tutti. Beppe ha fatto il barbiere per quarant’anni da quando quindicenne è arrivato a Prato dalla Calabria e adesso è in pensione. Beppe, baffi e pizzetto ben curati, capelli brizzolati, s’arrabbia subito col nostro «contatto», reo di avergli detto che cercavamo un barbiere vecchio a cui fare qualche domanda.

In effetti ha ragione, Beppe è giovanile e ci tiene alla forma fisica. Il Claudio dell’insegna, entrato come apprendista, da tre anni ha rilevato l’esercizio da Beppe che a sua volta aveva sostituito tale Pieri Albino. Una generazione di barbieri che attraversa quasi tutto il secolo scorso. Beppe come si diventa barbiere? «Oggi ci sono i corsi di studio ma una volta quando ho iniziato io, l’unica scuola era la bottega. Prima t’insegnavano a pulire, da ragazzo spazzavo tutto il giorno i capelli dal pavimento e rimettevo a posto gli attrezzi». E la prima barba ? «Dopo sette mesi. Per prima cosa ho imparato ad insaponare la faccia. In questa maniera “ci si fa la mano” e si prende confidenza con i clienti. Poi la rasatura la lasciavo fare ad Albino, guardavo e imparavo».

I mitici rasoi Solingen erano lo strumento principe dei barbieri, avevano una lama unica d’acciaio affilatissima, i movimenti della mano dovevano essere precisi perché, come dice Beppe, «se ti scappava la mano tagliavi mezza faccia». Adesso però la barba dal barbiere sono rimasti in pochi a farla. «La gente oggi la barba se la fa a casa – continua Beppe – ha meno tempo ed è sempre di fretta». Prima per fare una rasatura, la cosiddetta barba semplice, c’era un rito tutto particolare. Si affilava la lama del rasoio sulla coramella, si scioglieva il sapone nella bacinella e con il pennello in pelo di tasso si insaponava il viso. Il rasoio passava con mano ferma e veloce sulla faccia e rallentava in prossimità dei tratti più difficili. Il tutto poteva essere iniziato e terminato con l’apposizione sul viso di asciugamani caldi che servivano prima della rasatura per ammorbidire la pelle e dopo per alleviare le irritazioni causate dal passaggio della lama. Nel valzer del cliente che si alzava dalla poltrona e un altro che lo sostituiva il barbiere non cambiava né rasoio né tovaglia, bastava una nuova affilatura al primo e una forte scossa al secondo per essere già pronti all’uso. Adesso per ogni cliente serve una nuova lametta; creme e spray hanno sostituito i panni caldi.

Per quanto riguarda invece il taglio dei capelli, quando Beppe ha iniziato andava per la maggiore quello alla «Umberta», dal nome del Re Umberto I di Savoia che portava i capelli tagliati corti e della stessa misura. Negli anni Sessanta «per fare i capelli alla Beatle – precisa Beppe – si metteva un pentolino in testa e poi si tagliava lungo i bordi». Beppe ci racconta che non ha mai avuto richieste di tagli particolarmente stravaganti e che ormai i clienti sono tutti fissi e di vecchia data, pochi di passaggio. «Il più affezionato? certamente il Sor Carlo, viene quattro volte a settimana per farsi la barba da almeno cinquanta anni, da prima che arrivassi io. Anzi guarda un po’ fuori dalla porta perché ci sta che stia per arrivare». Beppe sorride sornione, Sor Carlo compare sull’uscio, avanza dinoccolato verso la poltrona. Salutiamo Beppe e lasciamo il Sor Carlo alla sua tradizionale rasatura.

La curiositàFra’ Martino de Porres, patrono degli artigianidel rasoio e delle forbiciEra un umile frate domenicano, nato a Lima e vissuto in Perù, venuto al mondo senza casa e senza nome. Nato nel 1579 e morto nel 1639, Martino de Porres è stato proclamato Santo nel 1962 da papa Giovanni XXIII. Nel 1966 papa Paolo VI lo ha dichiarato «Patrono primario presso Dio di tutti i barbieri, parrucchieri, pettinatrici e loro affini… con tutti gli onori e i privilegi liturgici connessi».Martino era figlio di una schiava negra, poi liberata, e di un nobile spagnolo il quale, si legge, lo riconobbe come figlio solo quando aveva 6 anni. Per guadagnarsi la vita, giovinetto apprese l’uso del rasoio e delle forbici, diventando barbiere. Barbiere e anche, secondo l’uso del tempo, medico cerusico, cioè chirurgo, per l’abilità nel maneggiare i ferri. Entrato nel convento domenicano di Lima, come fratello coadiutore, continuò ad esercitare il suo mestiere in favore della comunità. Ma il frate mulatto si adoperò con tutte le sue forze, e non solo con le forbici e il bisturi, in favore dei bisognosi, soprattutto degli indios e dei negri. La sua designazione quale Patrono degli artigiani del rasoio e delle forbici premia l’aspetto più modesto, ma non meno prezioso, della santità del frate mulatto. Il Santo Padre lo affidò alla devozione dei suoi colleghi affinché costoro tenessero presenti, disse Paolo VI, «quegli esempi di umanità e carità che egli lasciò… in modo che, mentre procurano un onesto ornamento al corpo, ricerchino pure la bellezza dello spirito».