Cultura & Società

Bambini e pubblicità: qualcosa non ti convince? Rivolgiti al «giurì»

di Mauro BanchiniNon più di 6 anni. Questa l’età di una bambina che presta il volto angelico a una pubblicità di una griffe per abbigliamento comparsa per diversi giorni sulle ultime pagine di importanti quotidiani e chissà su quanti poster giganti a giro per l’Italia. A rischio di fare propaganda è essenziale dire il nome della griffe, Nolita, perché quel nome è tutto un programma lasciando intravedere inquietanti richiami ad atteggiamenti ancora (ma per quando, se questa è l’aria che tira?) considerati inaccettabili.

È un programma l’abbigliamento e l’atteggiamento della piccola modella: tiene in grembo un neonato e sotto una minuscola giacchettina con fiori e farfalle le si intravede un (presumo inutile) reggiseno. Lo sguardo della bimba, con boccoli biondi e viso sapientemente truccato con tanto di rossetto, è fra lo spaurito e il provocante. Il pubblicitario voleva «scioccare»? Ovvio che sì, ma è giusto utilizzare il corpo di una bambina per guadagnare qualche soldo in più?

Passa anche questo in un mondo pubblicitario che, fra i suoi utenti privilegiati, ha l’esercito dei più piccoli: come soggetti bombardati da tonnellate di spot, ma pure come protagonisti degli spot stessi.

Nel quinto rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione in Italia (che in parte verrà presentato anche nell’incontro a Pisa per il «San Valentino delle famiglie») c’è una tabella che mette a confronto le opinioni degli italiani sulla pubblicità. Negli ultimi quattro anni, per fortuna, è fortemente aumentata l’insofferenza verso la pubblicità: oltre la metà del campione la giudica «invadente» e la percentuale di chi ritiene che la pubblicità alimenti «una concezione consumistica della vita dei bambini» è salita dal 17 circa al 29. Con deciso segno positivo anche coloro che la ritengono «diseducativa» mentre c’è un assai più evidente segno negativo per chi ritiene che la pubblicità aiuti «nelle scelte di acquisto». Tutto questo nel rapporto fra gli italiani e la pubblicità in televisione. Percentuali ancora più significative nell’ambito di Internet: a lamentarsi per l’invadenza dei banner pubblicitari sono quasi il 60% dei navigatori.

Ma cosa, in concreto, può fare un cittadino quando si accorge di uno spot che non lo convince? Non molti sanno che c’è una strada – aperta per le associazioni, ma aperta anche alle segnalazioni di singoli cittadini – che può addirittura portare alla cessazione immediata di una pubblicità. È la strada del ricorso al «giurì» previsto dal codice di autodisciplina varato dallo Iap (Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria): una particolare camera di conciliazione (www.iap.it ) per assicurare che la pubblicità sia realizzata «come servizio per il pubblico». Il codice è vincolante per utenti, agenzie, consulenti pubblicitari, gestori di veicoli pubblicitari: insomma per tutto il vasto mondo di interessi che ruota attorno alla ricchissima torta degli investimenti pubblicitari. Vengono dettate le regole di comportamento: lealtà, ingannevolezza, necessità di fornire prove tecnico-scientifiche alle affermazioni spesso roboanti delle tecniche pubblicitarie. Si dettano regole contro «superstizione, credulità, paura» e «affermazioni o rappresentazioni di violenza fisica o morale». Nessuna convinzione dei cittadini (morale, civile, religiosa) deve essere offesa e una cura particolare viene riservata proprio a bambini e adolescenti. Questi messaggi non devono contenere «nulla che possa danneggiare psichicamente, moralmente fisicamente» i bambini e non si deve «abusare della loro naturale credulità o mancanza di esperienza o del loro senso di lealtà».

L’impiego di bambini in messaggi pubblicitari «deve evitare ogni abuso dei naturali sentimenti degli adulti per i più giovani». E le pubblicità non devono indurre «a ritenere che il mancato possesso del prodotto pubblicizzato significhi inferiorità, oppure mancato assolvimento dei loro compiti da parte dei genitori».

C’è pure un articolo (il 28 bisd) dedicato a giocattoli, giochi e prodotti educativi per bambini. La pubblicità relativa non deve «indurre in errore sulla natura, sulle prestazioni, sulle dimensioni del giocattolo pubblicizzato» e neppure sulla «entità della spesa, specie quando il funzionamento del prodotto comporti l’acquisto di prodotti alimentari».

Basta guardare certi spot, certi tabelloni, certe pagine pubblicitarie per rendersi conto di quanta distanza ci sia fra il «dire» e il «fare». E ci si può anche rendere conto di quanto grande sia lo spazio per intervenire per far rispettare le regole. Anche quelle stabilite dall’Iap. Sul sito sono facilmente reperibili tutte le indicazioni per chiedere l’intervento del «giurì». E sono anche reperibili i testi delle sentenze emesse ed emesse con una celerità nei tempi a dir poco fantastica: entro pochi giorni dalla richiesta. Diverse sentenze riguardano proprio il rapporto pubblicità/minori.

Per citarne solo una, ha fatto cessare una campagna pubblicitaria che accostava, in modo irresponsabile, il consumo di birra («prima a tutta birra… poi tutta la birra che vuoi») alla guida veloce di autoveicoli. Quanti ragazzini sono morti, o sono rimasti gravemente impediti, per star dietro a suggestioni stupide di questo tipo?

Roberto Volpi: nei giornali, grandi sciocchezze sui piccoli«Abbandonata in un cassonetto della spazzatura». «Uccisa a 3 anni dopo essere stata violentata». «Allagano la scuola, denunciati giovani studenti». «Gettavano sassi sulle auto: fermati adolescenti». Sono solo alcuni esempi di titolo pubblicati negli ultimi tempi sui giornali o annunciati in televisione. Tutti hanno per protagonisti i bambini o i giovani. Ma anche la famiglia. Basti ricordare per citare, soltanto i casi divenuti più eclatanti Erika e Omar, il delitto di Cogne o quella della piccola Matilde di Ivrea. Tutte vicende nate all’interno di contesti familiari. I quotidiani italiani raccontano il mondo dei bambini (il loro rapporto con gli adulti) in maniera drammatizzante. L’infanzia, in prima come in ultima pagina, è sempre e comunque a rischio. Anche se la realtà, spesso, è diversa o comunque meno drammatica di quanto possa apparire. Lo sostengono gli esperti dell’Osservatorio su stampa e minori dell’Istituto degli Innocenti di Firenze che hanno pubblicato il rapporto Bambini e stampa, curato da Roberto Volpi, statistico ed esperto di sistemi informativi, nonché padre di tre figli. Rapporto che sarà presentato in occasione del «San Valentino delle Famiglie».

Roberto Volpi, avete analizzato seimila articoli su bambini, ragazzi e famiglie. Quali sono i temi principali per cui finiscono sui giornali?

«Il grande tema che ha la preminenza sulle pagine dei giornali (quasi un articolo su cinque che riguarda i bambini) è la salute dei bambini. Ma, e qui è il punto, la salute non ci finisce in termini positivi, come pure gli ottimi indici di salute dei bambini lascerebbero presagire. No: della salute dei bambini si sottolineano solo i rischi e i lati negativi come, primi tra tutti, l’obesità e la depressione, malattie delle quali si sente dire che i bambini italiani sono i più colpiti nel mondo. Balle. Si figuri se si sa qual è l’incidenza dell’obesità o della depressione dei bambini nei vari paesi del mondo. Se è per questo, anzi, non si sa neppure per l’Italia. Ci sono soltanto delle stime: vaghe per l’obesità, inconsistenti per la depressione».

Cosa potrebbero fare i giornalisti per affrontare meglio il tema «infanzia»?

«Il controllo della notizia, dovrebbe esserci un maggior controllo della notizia. Specialmente di quella notizia che si presenta sotto forma numerica, quantitativa, del tipo: un bambino su tre ha il colesterolo o sono stressati 7 bambini su 10. Robe così non possono neppure chiamarsi notizie tanto sono sciocchezze, eppure saltano fuori, qualcuno le tira fuori e, siccome sono notizie che fanno rumore, ecco subito tutti a riprenderle».Tommaso Strambi