Cultura & Società

Boccaccio, il predecessore di Benigni (con i dovuti distinguo)

Nel 1373 alcuni cittadini chiesero ai priori delle Arti una lettura pubblica “del Dante” – così allora si chiamava la Commedia – da tenersi tutti i giorni festivi. Il poema era uno dei libri più celebri nel XIV secolo in Italia, secondo solo alla Bibbia, ma aveva conosciuto una forte opposizione da parte di guelfi oltranzisti, studiosi di teologia, famiglie illustri che se ne sentivano colpite. Addirittura c’erano state condanne: il poeta era stato bollato come “vas diaboli” (vaso del diavolo) da teologi famosi. Tuttavia gli estimatori erano più numerosi dei detrattori; i Priori dettero il loro consenso e domenica 23 ottobre, per il primo appuntamento, la chiesa di Santo Stefano in Badia era piena di gente: c’erano i grandi studiosi dell’epoca, ma anche tanto popolo. Il lettore era il più illustre predecessore che Roberto Benigni potesse sperare di avere: Messer Giovanni Boccaccio.

L’esperimento fu un successo: dopo circa sessanta lezioni il docente si ammalò e fu necessario interrompere il ciclo; poi da marzo a settembre 1374 un’epidemia di peste scoppiò in città e poco dopo, il 21 dicembre 1375, Boccaccio morì.

Rimangono le Esposizioni sopra la Comedia, che si fermano ai primi versi del Canto XVII dell’Inferno, perché si tratta di appunti per il commento in quelle riunioni. Il Boccaccio, che aveva sempre difeso l’Alighieri a spada tratta, commentava il poema con un’attenzione alla lettera che gli permetteva di fare acute osservazioni di lingua. E poiché era un romanziere, lo intrigava particolarmente tutto ciò che in esso è  dramma, narrazione; ne coglieva più il significato morale, non quello sacro o l’ispirazione che molti gli riconoscevano.

Il celebre Certaldese  ha fra le tante sue benemerenze anche quella di essere stato un grande dantista: non solo ha amato e citato il poeta, ma lo ha fatto oggetto di studio per tutta la sua vita. Ne è uno dei più agguerriti commentatori e conoscitori e si deve a lui se alcuni scritti dell’Alighieri sono giunti fino a noi. E’ il caso della Ep. III a Cino da Pistoia, della XI ai cardinali italiani e della XII all’amico fiorentino che possediamo solo perché trascritte da Boccacio in persona nello Zibaldone Laurenziano Plut. XXIX, 8. Anche le Egloghe a Giovanni del Virgilio, sono presenti in questo stesso manoscritto, sempre di mano di messer Giovanni, corredate da note, appunti, interpretazioni. La sua attività di copista di Dante si è esercitata soprattutto su Commedia, Vita nuova e su quindici Canzoni. Non fu, secondo i filologi, un grande editore, ma è un prezioso testimone di quanto già a suo tempo il poema dantesco fosse stato letto, copiato e purtroppo infarcito di “errori”.

Soprattutto egli firma il “Trattatello in laude di Dante”, ossia il De Origine vita studiis et moribus viri clarissimi Dantis Aligerii fiorentini poetae illustris et de operibus compositis ab eodem (Sull’origine, vita studi e costumi del famosissimo uomo Dante Alighieri fiorentino, poeta illustre e sulle opere composte dallo stesso). Composta dopo il 1351 (la seconda redazione, più breve, risale al 1360 e poi sarà ancora ritoccata),  è la prima biografia del poeta e Boccaccio ne crea un’ immagine quasi laicamente religiosa: lo identifica con poesia, scienza e filosofia ed il suo elogio coincide con quello della sapienza e della erudizione. Lo vede come la vittima dei tempi, l’esempio del potere  della “pestilenza morale” che dominava la società. A Messer Giovanni, che non aveva conosciuto personalmente l’Alighieri, ma lo considerava il suo maestro (dal qual io/tengo ogni ben, se nullo in me sen posa, come scrive in Amorosa Visione VI 2-3) si devono molte notizie interessanti, vere e false, raccolte a Firenze, a Napoli, in Romagna, avvicinando amici, conoscenti, parenti del poeta. E’ lui ad identificare Beatrice in Bice Portinari, secondo la testimonianza di una persona “fede degna”, che forse era Monna Lippa de’ Mardoli, madre della sua matrigna e seconda cugina della stessa “donna della salute”.

Diffonde anche la curiosa “novella” del ritrovamento a Firenze dei primi sette canti dell’Inferno dopo l’esilio dell’autore. Riporta e interpreta il sogno della madre del poeta quando era incinta: le madri dei grandi uomini sono protagoniste di sogni presaghi della grandezza dei figli ancora da nascere a partire dalla letteratura classica. Qui si parla di alloro e di acqua chiara, di fronde che incoronano i poeti e di pavoni. Il tutto allegoricamente spiegabile nella direzione della grandezza di Dante e della sua Commedia. Infine, a Boccaccio si deve il ritratto fisico di Dante: “Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura, e, poi che alla matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto, e era il suo andare grave e mansueto, d’onestissimi panni sempre vestito in quell’abito che era alla sua maturità convenevole. Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso”.  

Così al cap. XX. Pare che a Verona, per strada un uomo abbia presentato il poeta a delle donne come colui che andava e veniva a suo piacere dall’inferno. Al che una di loro avrebbe attribuito colorito scuro e barba increspata al caldo e al fuoco di laggiù. Boccaccio ci tramanda un Dante sorridente e divertito a quell’ affermazione e lo scrive con ironia.  Ironia di biografo e di biografato: non si è fiorentini o toscani per caso.