Cultura & Società

Così la lirica ha attraversato la storia

di Carlo Lapucci

Le cose, soprattutto quelle belle, nate per durare, non muoiono che in tempi lunghissimi, quello che si dissolve rapidamente è l’ambiente nel quale nascono e crescono: come una crisalide, un guscio vuoto presto scompare. L’abbiamo visto con il cinema, forma di spettacolo moderno se mai c’è stato: la televisione lo ha messo pian piano da parte e ora lo sta facendo diventare un’altra cosa: da divertimento collettivo è divenuto un passatempo individuale. I film si fanno ancora, anche se non capolavori come nel periodo d’oro: mancano le sale, col pubblico variopinto e rumoroso, il fumo azzurro nel barbaglio del proiettore, il venditore d’aranciate e semi di zucca, l’intervento becero dello spettatore che veniva considerato una nota critica, l’andata in comitiva a vedere una prima, la passione per gli attori, l’ansia collettiva per l’eroe in pericolo, qualche lacrimuccia per l’infelice orfanella, e tante altre cose che avvenivano nella penombra complice della sala di proiezione. Tutto questo non c’è più, come sparito l’ambiente del varietà, del teatro, del circo.

Per quanto riguarda il mondo dell’opera ci ha dato lo spunto a queste riflessioni la pubblicazione di un libro importante, di valore storico, che appare per la prima volta nella traduzione italiana: il Dizionario storico dell’opera di Gustav Kobbé, che prende in esame 500 capolavori del melodramma, 160 compositori con tutto il corredo opportuno di librettisti, interpreti, direttori, critici, pubblicato da Mondadori DOC.

Questo grande classico della lirica, aggiornato fino ai nostri giorni, uscito la prima volta nel 1919, ma costantemente completato e rimaneggiato, oltre a rispondere a molte curiosità, a prestarsi a una facile ricerca e a costituire una pietra di paragone, porta con sé una certa dose di nostalgia, che gli viene appunto dall’esser nato in un’epoca in cui il melodramma era ancora uno spettacolo vissuto e partecipato, si può dire vivo in quanto operavano autori come Ravel, Leoncavallo, Debussy, per non parlare dei direttori d’orchestra e cantanti ormai mitici.

Sfogliando le pagine che riguardano i contemporanei si sente ancora la critica in formazione, mentre anche gli autori trapassati sono vivi nelle passioni e nelle ripulse, nelle esecuzioni portate alle stelle o condannate. Eppure non si può che rimpiangere quell’epoca: il libro da molti a lungo desiderato oggi non può prendere posto accanto alla collezione dei Cd o al compact disc player, al quale si ascoltano registrazioni superbe, ma non si sente più il clima del teatro dove attimo per attimo si costruisce il trionfo o il fiasco, dove il cantante è atteso al varco del do di petto, dove il loggione alberga la claque, dove gli abiti eleganti negl’intervalli mandano odore di naftalina, dove alla fine c’è la corsa ai camerini per gli autografi e poi le brigate di musicomani che tornano a casa accapigliandosi sulla prima donna.

Perché il teatro dell’opera più che ogni altro ambiente era un mondo, un universo vero e proprio dove il popolare entrava in contatto con i livelli più alti della società, tutti si sentivano competenti e partecipavano con passione, anche se molti vedevano i cantanti più che come artisti come sollevatori di pesi che dovevano arrivare, tenere, reggere e non calare.

L’opera ha cantato il nostro Risorgimento, ne ha diffuso lo spirito, lo spirito battagliero, anche se questo con magri risultati. Il sentimento prendeva le mosse dalle sue scene dove si tenevano lezioni di dignità, di morale, di educazione sentimentale, di patriottismo e c’era un vero processo d’identificazione nei personaggi che sintetizzavano la loro filosofia nelle romanze, le quali ebbero forse più forza di penetrazione delle canzoni che vennero dopo.

Fondamentale era il folclore di quel mondo di cui faremo un esempio. Consultando il Dizionario storico dell’opera alla voce Turandot, si trova una fitta pagina sulla valutazione e sul problema dell’ultima parte. Come il Requiem di Mozart l’opera rimase incompiuta per la morte del Maestro, e fu completata dal compositore Franco Alfano. Su questa partitura furono rimesse le mani più volte fino al 2001, per opera di Luciano Berio. Il lavoro di ricucitura e ricostruzione degli appunti pucciniani fu tormentata e controversa, puntigliosamente controllata da Arturo Toscanini che diresse la prima dell’opera. Nel volume si trova ben ricostruita tutta la vicenda del tormentato lavoro, glissando opportunamente su un fatto che invece per il fedele del loggione amava raccontare con le lacrime agli occhi. Alla prima rappresentazione della Turandot alla Scala il 25 aprile 1926. Il direttore Toscanini, giunto al terzo atto, nel punto in cui viene a mancare la musica del Maestro, dopo l’aria di Liù: Tu che di gel sei cinta, si volse e nel silenzio disse agli spettatori: – Qui si fermò la mano del Maestro.

Tutto sommato, anche se l’aneddoto è nella mitologia, risulta irrilevante per la musica e le cronache del tempo non fanno parola di questa frase. Il Corriere della sera riferì qualcosa di più pedestre: «Qui finisce l’opera lasciata incompiuta dal Maestro per la sua morte». La Gazzetta del Popolo: «L’autore ha musicato fin qui, poi è morto». (Peggio ancora). La Sera: «A questo punto finisce l’opera come l’ha composta il Maestro Puccini». La Stampa: «Qui finisce l’opera rimasta incompiuta per la morte del povero Puccini». Peggio le storie della musica: «Qui il maestro è morto» (Le grandi opere del teatro musicale, Vallardi 1994). Cosa avrà mai detto a quel punto Arturo Toscanini?

Questa letteratura in margine forma un cospicuo patrimonio che era lo strumento col quale i melomani avvicinavano i capolavori e gl’interpreti in una comunicazione diretta: più ancora che al cinema all’opera si partecipava collettivamente. Nei paesi tutti si conoscevano, nelle città si andava a teatro in comitive, occupando nel teatro uno spazio geografico che spesso era fisso, spesso in sostenitori di artisti diversi, come è accaduto ultimamente per la Callas e la Tebaldi. Nelle città di provincia e nei paesi di una certa importanza giravano orchestre, compagnie di second’ordine, ma sempre d’un certo valore perché fischiare non era considerato, come oggi, un peccato, anzi. C’era gente che aveva una discreta competenza. Oggi una rappresentazione del genere avrebbe una vita difficile: i mezzi di riproduzione, dai Cd ai Dvd ci hanno abituato a cantanti di prim’ordine, orchestre perfette, direttori di grido e quando si dovesse assistere a uno spettacolo di una compagnia che fa quel che può, la rilevanza dei difetti e delle manchevolezze soverchierebbe le qualità e i valori.

Del resto questa privatizzazione del melodramma è irreparabile: mentre un tempo l’impresario teatrale della lirica guadagnava, oggi un teatro lirico non vive senza le sovvenzioni pubbliche e quando uno va a teatro difficilmente ci trova uno spettacolo filologicamente corretto: sempre qualcuno pensa bene di modernizzare, rileggere, rivisitare, adattare liberamente il testo originale, per non dire delle scenografie che spostano le storie in tempi e luoghi lontani. Quando si fanno le riduzioni, le riletture, le scenografie stravaganti, le modifiche con interventi di sostanza, si ammette implicitamente che il prodotto risente del tempo e non è presentabile al pubblico nella sua forma originale, o per colpa dell’opera o per colpa del pubblico. Del resto il pubblico dei teatri lirici è per cause diverse ormai molto ridotto. C’è comunque un aspetto assai positivo: il mondo dei cultori della lirica si è allargato, è divenuto una grande folla, ma nascosta e silenziosa, che si gode in casa i piaceri della lirica in stanze insonorizzate o in autobus, con potenti cuffie agli orecchi. Appartati, rimasti senza la scuola del palchetto, del foyer e del loggione, senza la critica del fischio e dell’applauso, a questi appassionati risulterà pericolarmene utile il Dizionario storico dell’opera di Gustav Kobbé.

Gustav Kobbé, Dizionario storico dell’opera, Mondadori DOC, Milano 2007, pp. 1136, euro 25

Aneddotica

Quando si parla d’opera, viene fuori l’aneddoto sui contrattempi, sui casi curiosi capitati ai tempi dei tempi. Naturalmente, non di rado, il vecchio appassionato di melodramma sfoderava ricordi personali e trinciava giudizi spietati. Tutti passavano sopra al linguaggio dei libretti, truculenti, amanti del facile, delle fosche tinte, dei sentimenti a buon mercato. I meriti della musica hanno tenuto in vita libretti infelici, fatti sul gusto peggiore, usando un linguaggio retorico, tronfio, artificioso. Ci sono celebri comicità involontarie, esilaranti, quali si trovano soprattutto nei libretti musicati da Verdi che non ci badava troppo e dicono, ne aggiungeva.

Ne I Lombardi (Atto III, Scena IV) abbiamo una perla:Sarà l’urlo della ienala canzone dell’amor.Capolavoro assoluto del genere è Il ballo in maschera, che annovera tra le gemme più fulgide della materia, prima tra tutte questi due celeberrimi versi che pare siano addirittura di Giuseppe Verdi e non di Antonio Somma, autore del libretto il quale, per oscure ragioni, inizialmente non lo volle firmare:Fuggi, fuggi: per l’orrida viasento l’orma dei passi spietati.E poi l’altrettanto celebre raggio lunar del miele:Ve’ se di notte qui con la sposal’innamorato campion si posa,e come al raggio lunar del mielesulle rugiade corcar si sa.Quindi un complesso di versi espressionisti che si azzuffano anche con sintassi e grammatica:E sei tu che macchiavi quell’anima,la delizia dell’anima mia…Che m’affidi e d’un tratto esecrabilel’universo avveleni per me!Traditor! che in tal guisa rimuneridell’amico tuo primo la fe’!

Curioso è anche il dialogo tra la platea e il palco scenico che ha creato situazioni di comicità irresistibile. Tra i luoghi più ricchi c’è la Toscana e Firenze in particolare, dove si pratica volentieri il divertimento nel divertimento e quindi il teatro nel teatro.

La Cavalleria rusticanaUna sera alla Cavalleria rusticana c’era un tenore che avrebbe fatto meglio ad andare a fare lo strillone di giornali. Il pubblico era di quelli mediocri, che pigliano tutto per buono e insomma anche le stecche passarono lisce e s’arrivò verso la fine. Quando venne la voce da fuori della scena che grida:– Hanno ammazzato compare Turiddu… Hanno ammazzato compare Turiddu…Uno del loggione urlò:– E gli sta bene: doveva cantare megliooo… Il Barbiere di SivigliaUna sera a Campi, paese vicino a Firenze, una compagnia dava il Barbiere di Siviglia, con pochi introiti, poca motivazione, dato il pubblico un po’ svogliato, disattento e rumoroso.Non si sa come al tenore Giorgetti, che faceva la parte di Figaro, al momento d’iniziare la famosa cavatina Largo al factotum, annoiato e stufo, invece d’iniziare con il famoso Trallaralléra trallarallà, entrò in scena cantando:– Lullurullùru, lullurullù…

I campigiani la presero malissimo, come un insulto alle loro tradizioni culturali e la compagnia, tenore Giorgetti in testa, finirono la serata fuggendo e cercando scampo per le campagne vicine, braccati da campigiani melomani inferociti.

La ToscaSi rappresentava la Tosca al Teatro Comunale di Firenze e un cane di tenore aveva fatto passare la voglia di vivere a metà degli spettatori. Nel loggione c’era maretta, un po’ meno nei palchi. Si arriva al terzo atto, alla romanza di Cavaradossi: E lucevan le stelle, e il tenore:– … Oh! dolci baci, o languide carezze… La gente sente allegarsi i denti perché quello invece di cantare starnazza, ma va avanti:– L’ora è fuggita e muoio disperato…Uno dal loggione: – Purtroppo ‘un tu sei il solo… La BohèmeAccadde al Teatro Pagliano. Si rappresentava la Bohème. Senza riscaldamento o quasi, specialmente nel loggione, il gennaio si faceva sentire senza misericordia e la gente tremava. L’orchestra suonava alla meglio, i cantanti facevano anche meno. Al momento in cui Rodolfo inizia la romanza e finisce la prima frase, cantando:– Che gelida manina… uno spettatore dal loggione urla:– La sentisse e’ mi’ piedi! La VallySi dava la Vally di Catalani e la prima donna non era gran che; anche il resto della compagnia faceva quello che poteva. Al momento che la cantante disgraziata incominciò la romanza:– Ebben, andrò lontana…Uno del loggione gridò con quanto fiato aveva in gola:– Vai vai, e che non ti si senta più! Il ParsifalIl pubblico fiorentino era desideroso di ascoltare il Parsifal, da lungo tempo atteso e udito solo da pochi, però non era preparato per le forti dosi musicali wagneriane che nel primo atto, per quantità e impegno dell’opera richiedono allo spettatore una forte motivazione e notevole resistenza. Ciò nonostante la platea e il loggione subirono più o meno rapiti la musica, e fecero buon viso a cattiva sorte e attendendo rassegnati nel buio la fine dei suoni ostici per le orecchie del tempo. Passò così il lunghissimo primo atto, in fondo al quale qualcuno aveva creduto di non arrivare. Riaccesesi le luci, stropicciati gli occhi, riavutisi un po’ dallo sgomento, gli spettatori, ancora silenziosi, si rianimarono a una voce che chiese preoccupata dal loggione: – Tutti vivi?

Versi immortali

Molti versi di opere sono divenuti proverbiali, o comunque sono entrati nella fraseologia comune.La donna è mobile (qual piuma al vento). Per dire che la donna è varia e mutevole in molti sensi. Dal Rigoletto (Atto III, Scena II, parole di F. M. Piave) musicato da Giuseppe Verdi.Largo al factotum della città. Per prendere bonariamente in giro chi si dà da fare, (Barbiere di Siviglia, Atto I, scena 2), libretto di Cesare Sterbini, musica di Gioacchino Rossini.La calunnia è un venticello. Per far capire a qualcuno che si sta facendo della mormorazione. Barbiere di Siviglia (Atto I, scena 8).Verranno a te sull’aure i miei sospiri ardenti… Modo ironico per dire a uno che sarà nei nostri pensieri. Atto I della Lucia di Lammermoor, libretto di S. Cammarano, musica di G. Donizetti.Un bel dì vedremo. Se son rose fioriranno. Da Madama Butterfly (Atto II, scena 1) libretto di Giacosa-Illica, musica di Giacomo Puccini.Ritorna vincitor! Si usa come augurio scherzoso. Così canta Aida al suo Radamès. Libretto di A. Ghislanzoni, musica di Giuseppe Verdi, Atto I (scena I).Oh, mia patria, sì bella e perduta! Per commiserare la patria, quando ne ha bisogno. Dal Nabuccodonosor: Va’, pensiero sull’ali dorate (Parte III).  Temistocle Solera, musicata di Verdi.Vi ravviso, o luoghi ameni. Ironico ritornando in un luogo noto… rientrando in galera. Da La Sonnambula, (Atto I) di Felice Romani, musica di Vincenzo Bellini.Prendi l’anel ti dono. Offrendo un anello o qualcosa di prezioso. Da La Sonnambula, (Atto I, scena 5) di Felice Romani, musica di Vincenzo Bellini.Suoni la tromba e intrepido io pugnerò da forte. In senso ironico per dire d’essere prodi. Da I Puritani (Atto II, sc. 4) Libretto di Carlo Pepoli, musica di Vincenzo Bellini.Questa o quella per me pari sono. Per dire che una cosa vale l’altra. Dal Rigoletto (Atto I, Scena 1) di F. M. Piave, musica di Giuseppe Verdi.Cortigiani, vil razza dannata. Per inveire, più o meno scherzosamente contro chi è legato al potere. (Rigoletto Atto II, scena 4).                                                                                                                                                                                C. L.