Cultura & Società

Etica e informazione. Ma noi giornalisti rispettiamo i lettori?

di Mauro Banchini

«Perché, Signore, voi tanto spesso pensate a me e io penso così di rado a voi?». Parole di un santo francese che la Chiesa cattolica ha voluto far diventare «patrono», cioè in qualche modo protettore e dunque amico, di una categoria che dovrebbe pensare certo a Dio ma soprattutto a coloro che sono stati creati «a immagine e somiglianza» proprio di Dio: gli esseri umani.

Tra i volumi su questo santo di Annecy, in Savoia (a proposito: se non ci siete mai stati, andateci perché la «location» merita una visita e neppure tra le più affrettate. Oltretutto è sede di un prestigioso festival del cinema italiano. Ci si arriva in un’oretta di comoda autostrada dal Bianco. Sta su un lago che par d’essere in Paradiso e su canali che par d’essere a Venezia), tra i volumi di questo santo pressoché sconosciuto al grande pubblico, si trova anche un Buongiorno (Città Nuova 2000) che riporta, giorno per giorno, «insegnamenti ed esempi» tratti dalla vita e dalle opere di san Francesco di Sales.

Già perché è proprio di lui che parliamo in questa domenica 24 gennaio 2010 a lui dedicata (un bel fiorire, in parecchie diocesi toscane, di iniziative per i giornalisti con Messe e incontri conviviali). Sfogliando Buongiorno e puntando al 24 gennaio (impresa non propriamente originale, ma chi l’ha detto che si debba sempre essere originali?) ci si imbatte proprio in questo interrogativo.

È tratto da una fra le opere più importanti dello scrittore-santo (Filotea o Introduzione alla vita devota) e pone una questione da cui in effetti si potrebbe partire anche per un bel ragionamento sulla professione: se Dio, e penso proprio non ci piova, guarda sempre alle nostre difficoltà e alle nostre vittorie, se Lui non ci fa mai mancare prove della sua presenza (prove che magari, come il dolore o l’ingiustizia, ci mettono alla prova ma che sono anche una incredibile molla per proseguire, per avare avanti, per superare difficoltà e ostacoli), qualcuno per favore può rispondere alla domanda: perché, o buon Dio, io guardo così raramente a Te?

Professionalmente parlando, l’interrogativo del nostro bravo santo (a proposito: Sales è la località, in Savoia, dove nel 1567 nacque Francesco. Si pronuncia all’italiana, com’è scritto) si presta bene – mutando quel che c’è da mutare – anche per una riflessione sul giornalismo odierno: non è solo Dio che guarda a noi (intesi come categoria. Intesi come giornalisti) anche perché ho proprio l’impressione che Dio, delle nostre categorie professionali, un po’ – se è consentito il termine – se ne freghi.

Ma a noi, a noi giornalisti, guardano tutti quelli che Dio ha creato: uomini e donne di ogni età e cultura, quelli che se la cavano bene se li metti davanti a uno schermo (nel senso che hanno gli anticorpi per distinguere, ammesso sia possibile, il vero dal falso) e quelli che le berrebbero tutte perché ragionare con la propria testa è certo più faticoso che farsi trovare le soluzioni da qualcun altro.

A noi, al nostro mestiere – che è quello di raccontare i fatti cercando di rispettare la verità, ma che è anche quello di commentare i fatti cercando di essere comunque onesti – guardano le persone in carne e ossa. Ma – ecco il punto – perché, se i lettori così tanto pensano a «me», io, giornalista, così poco penso ai lettori?

Certo, posta così, la domanda può essere fuorviante ed è forse pure esagerata nel senso che, per fortuna, la categoria è piena di colleghi che ogni giorno, in mezzo a difficoltà comunque crescenti, fanno il loro dovere esercitando la professione con correttezza e buona fede. Eppure c’è qualcosa – nella iniziale domanda del «nostro» santo e nella parallela domanda, attualizzata e conseguente – che vagamente inquieta.

Chi legge, in questa domenica di ormai fine gennaio dove non mancheranno omelie appassionate sul mestiere del giornalista, ha già visto cos’è accaduto nei giorni scorsi proprio nel capoluogo toscano con riferimento al rapporto fra giornalismo e verità. Chi legge sa già quali sviluppi ci sono stati in una vicenda che lascia non poca amarezza e che sarebbe consolante poter ridurre a un, isolato e sfortunato, infortunio professionale come tanti, in ogni mestiere, possono capitare.

Mi riferisco al virgolettato che un collega ha messo in bocca – subito dopo la tragedia di Haiti – a un fiorentino … miracolosamente scampato alle macerie del terremoto. Peccato che quel fiorentino, il povero Guido Galli (45 anni, funzionario Onu, in missione ad Haiti) fosse morto e dunque non potesse certo rilasciare dichiarazioni a un giornalista che, magari, aveva ricevuto dal suo direttore l’input di trovare «una bella storia» in grado di montarci un bel titolo per vendere, giustamente, qualche copia in più del giornale. Poi sono arrivate le precisazioni e le scuse. Forse arriveranno decisioni dall’Ordine professionale. Ma nel frattempo il generale diritto dei lettori ad avere una informazione corretta (per non parlare della pena dei familiari) è stato sconfitto da un infortunio così imbarazzante.

Al di là della vicenda specifica, emerge più in generale un aspetto con il quale ogni giornalista è oggi costretto a fare i conti: la velocità sempre maggiore di una «macchina» mediatica che non ha più tempo per esercitarsi nell’abc del giornalismo (i riscontri, meglio se incrociati … le verifiche delle fonti … l’obbligo di mettere tra virgolette soltanto ciò che una persona ha davvero detto e non ciò che noi si vorrebbe avesse detto, non ciò che più fa comodo per una tesi o per l’altra).

Ecco l’importanza delle regole deontologiche e di un Ordine professionale, modernamente inteso, capace di farle rispettare e, eventualmente, rapido nell’esercizio delle sanzioni. Queste regole non mancano, a partire da quella fondamentale – scritta proprio nella legge istitutiva dell’Ordine – che sintetizza in modo mirabile il rapporto fra diritti e doveri nell’esercizio della professione.

Se c’è un diritto «insopprimibile» (la libertà di informazione e di critica) c’è anche, per i giornalisti, per tutti i giornalisti, un obbligo «inderogabile» (il rispetto della verità sostanziale dei fatti). E se il «diritto» ha un limite (la tutela della personalità altrui), anche il «dovere» va esercitato seguendo specifici «paletti» (la lealtà e la buona fede). Difficile trovare una sintesi migliore rispetto a quella, che troviamo indicata in una legge di quasi 50 anni fa quando il giornalismo era, in Italia e nel mondo, decisamente un’altra cosa rispetto a oggi. E quando, mi sia consentito, la qualità delle leggi era forse, se non altro nella scrittura, assai più elevata.

Su questa alternanza diritti/doveri si è poi costruita una corposa normativa deontologica e adesso, in occasione dei suoi primi 50 anni, l’Ucsi (Unione Cattolica Stampa Italiana) ha varato un suo manifesto – redatto da un toscano, il prof. Adriano Fabris, editorialista anche di questo giornale – che sintetizza dieci nuovi punti «per un’etica della informazione».

Tornando al santo di Sales (il 2010 è l’anno giubilare: nel 1610, Francesco fondò un Ordine monastico – quello della Visitazione di Santa Maria – ancora oggi presente in tutti i Continenti con le monache «Visitandine» che offrono, anche a Pistoia, una preziosa, umile, silenziosa testimonianza di antica clausura) va anche ricordato un altro aspetto.

Fu il 24 gennaio 1604, allora festa di san Timoteo, che l’allora vescovo di Ginevra, grande predicatore con la parola e con gli scritti, usò quella frase riferendosi allo zelo di san Timoteo per convertire il popolo di Efeso. Il vescovo Francesco fu così efficace da far restare« ammirata anche una tale Luisa di Chatel: giovane dama della Corte normanna, molto amante della vanità e dei vantaggi del mondo. Finì, Luisa, per convertirsi e per chiedere consigli al vescovo Francesco: questi, futuro patrono dei giornalisti, cominciò a mettere nero su bianco tali consigli scrivendo il primo abbozzo di quella che sarà la sua opera principale: la Introduzione alla vita devota, detta comunemente Filotea.

Ci si legge, fra le altre indicazioni, anche questa «regola generale», che apparentemente fa a pugni con lo stile, tutto sommato abbastanza cinico, che sostiene il mestiere di giornalista. Giudicare sempre bene quello che si vede fare dagli altri. Quando proprio non si può, si sappia scusare e pregare per essi.

Che c’azzecca con la, laicissima, regola prima di ogni buon giornalista secondo cui sarebbe bene dubitare di tutto?

Eppure è stato proprio un grande giornalista contemporaneo, il mitico Ryszard Kapuscinski, a dirci che questo «non è un mestiere per cinici». Avesse ragione lui? Avesse ragione san Francesco di Sales, dottore della Chiesa e patrono non solo dei giornalisti ma anche dei sordomuti?

Ucsi, il decalogo della «buona notizia»

«L’informazione non è spettacolo, anche se può fare uso di forme che sono proprie dello spettacolo. Il compito di una corretta informazione non può essere quello dell’intrattenimento … Il giornalista interpreta le notizie che riceve, dunque non può essere obbiettivo, ma vi è una grande differenza tra l’interpretazione delle fonti e la manipolazione o la falsificazione delle notizie. Compito del giornalista resta l’approssimazione massima alla verità». Sono due dei punti che formano il decalogo (Manifesto per un’etica dell’informazione) adottato dall’Ucsi nazionale e riportato integralmente, dall’Ucsi Toscana, a conclusione di un fascicolo che riporta gli atti di un suo convegno svolto a Firenze lo scorso novembre proprio sul rapporto fra etica e professione. Al convegno presero parte mons. Giuseppe Betori e il prof. Adriano Fabris, principale estensore del nuovo manifesto che l’Ucsi, adesso, offre non solo all’intera categoria dei giornalisti ma anche al variegato mondo della comunicazione (compresa quella dei soggetti privati) e del marketing, della pubblicità e delle relazioni esterne: un mondo, complessivamente inteso, che con le sue tecniche e i suoi investimenti condiziona e talvolta manipola – nella società in cui tutto è comunicazione – ogni aspetto della vita quotidiana.

Il fascicolo di Ucsi Toscana – curato da Luigi Cobisi, consigliere nazionale Ordine Giornalisti e tesoriere di Ucsi Toscana – verrà distribuito ai soci, ma anche a chi si ritenga interessato, sabato 30 gennaio nella sede sociale di via de’ Pucci a Firenze. Qui (inizio ore 10) si svolge un incontro, sempre nell’ambito delle manifestazioni in omaggio a san Francesco di Sales, per iniziare il tesseramento 2010 di questa associazione, presieduta a livello nazionale da Andrea Melodia, in una intensa fase di riorganizzazione statutaria (fra gli obiettivi del nuovo statuto, che dovrà essere approvato nei prossimi mesi, anche una maggiore autonomia alle sedi regionali. Maggiori informazioni su www.ucsi.it dove si trova anche il testo integrale del manifesto).

L’Ucsi Toscana ha deciso di proporre il documento alla libera adesione dei professionisti toscani nella carta stampata e nel sistema radiotelevisivo, ai Cdr (gli organismi sindacali di base), a chi fa informazione nei siti blog ma anche a chi studia i fenomeni della comunicazione.

Non sarebbe ad esempio male se un’occhiata al manifesto – e più in generale al grande potere e alla grande responsabilità dei media – venisse data anche a livello di parrocchie, movimenti, associazioni ecclesiali. All’inizio di un nuovo decennio che, giustamente, punta molte carte proprio sui temi dell’educazione, non pare estranea neppure a un serio discorso di pastorale delle situazioni concrete la circostanza che la professione giornalistica – tanto per tornare al manifesto di Fabris – vada «sottratta non tanto all’influenza, il che è impossibile, delle istanze provenienti da luoghi estranei al giornalismo, quanto alla subordinazione nei confronti di esse». Se c’è un giornalismo «inquinato», può e deve essere un giornalismo «pulito».

Che non si sia in presenza di questioni teoriche o astratte basta poco per capirlo. Basta, ogni sera, guardare con occhio critico – ad esempio – i grandi tg (Rai o Mediaset poco importa: l’omologazione è ormai vittoriosa) con il ruolo sempre maggiore per le cosiddette «soft news» (possibile che le storie crudeli del terremoto, con i bambini morti, si intreccino con il pancione di Elisabetta Gregoraci che ha deciso di posare nuda avendo copertura non solo dai settimanali gossippari ma anche dai tg serali?) o per l’intreccio sempre maggiore fra giornalismo e fiction (due modi, fino a qualche anno fa, diversi e separati per comunicare: uno che coinvolgeva con la realtà e l’altro che illudeva o comunque divertiva con la fantasia. Oggi un’unica melassa copre tutto). Del tutto evidente come tutto ciò si intrecci non solo con l’autonomia dei giornalisti ma anche con il diritto dei cittadini ad avere una informazione onesta. Nella complessità e nella diffusione della loro presenza, le parrocchie – diciamoci la verità – dovrebbero essere molto più attente a scenari che troppo spesso offendono il diritto del cittadino a essere tale. In primavera, a Roma, grande convegno, dell’ufficio nazionale Cei per le comunicazioni sociali anche su questi temi: www.testimonidigitali.it