Cultura & Società

I «Monti orfici» di Dino Campana

Nell’Abbazia di San Salvatore e San Lorenzo a Settimo (Scandicci, Firenze), dove è sepolto il poeta Dino Campana, è stata presentata domenica 15 maggio una insolita testimonianza di pellegrinaggio letterario, il libro di Giovanni Cenacchi I Monti Orfici di Dino Campana, edito da Mauro Pagliai. Hanno parlato don Carlo Maurizi, parroco di Badia a Settimo, Lorenzo Bertolani, Giuseppe Matulli ed Enrico Gatta, del cui intervento pubblichiamo qui uno stralcio.

di Enrico Gatta

Poco più di un secolo fa, nel settembre 1910, Dino Campana lasciò Marradi per andare a piedi al santuario francescano della Verna. Il diario di quel pellegrinaggio è uno dei poemi in prosa che nei Canti Orfici si alternano ai testi in versi. Ed è in buona parte su questo poema, con le straordinarie descrizioni delle acque, delle foreste e delle rocce che si incontrano nell’ascesa, che si basa il libro di Giovanni Cenacchi I Monti Orfici di Dino Campana. Un saggio, dieci passeggiate, edito da Mauro Pagliai. Si tratta di un’opera alquanto originale, perché a una prima parte in forma di saggio, vivace e combattivo come un pamphlet, si aggiunge una seconda parte che potremmo dire escursionistica, con la descrizione di dieci «passeggiate» nell’Appennino più familiare a Campana.

Giovanni Cenacchi, nato a Cortina d’Ampezzo nel 1963 e morto a Bologna nel 2006, è stato un valente alpinista, oltre che apprezzato documentarista e scrittore. È stato anche un uomo coraggioso, che ha lucidamente vissuto il tempo della sua implacabile malattia in un sincero e talora duro «corpo a corpo» con Dio, come si legge in Cammino tra le ombre, uscito postumo nel 2008 da Mondadori. Passando ora ai suoi Monti Orfici, viene spontaneo chiedersi come possano combinarsi le indicazioni sulle passeggiate con la più classica forma del saggio. Ma proprio qui sta l’originalità dell’opera. Il camminare, il vagare tra prati e boschi, lo scalare vette, viene considerato uno strumento critico, indispensabile per comprendere un poeta come Campana, che per amore o per necessità fu costretto ad essere un grande camminatore, su montagne che erano per lui una terra d’esilio e un rifugio dalla meschinità e dall’incomprensione del mondo, ma erano anche fonte di ispirazione, casa ideale della sua poesia.

Alle radici dell’impostazione di Cenacchi c’è la considerazione che Campana volle sempre tenere congiunte letteratura ed esperienza. E tale volontà fu tanto ferma e disperata, che l’interprete non può prescinderne. Anzi, se vuole inserirsi in qualche modo nell’orizzonte di quell’esistenza di poesia, egli deve accettare un rapporto di identificazione. Nell’opera di Campana, osserva Cenacchi fin dalle prime battute del libro, ogni riferimento, ispirazione o citazione è rigorosamente sottoposta dall’autore al vaglio del comportamento, «alla vertigine inebriante o minacciosa dell’esperienza sensibile». Vi è perciò un’identificazione tra opera e vita. Ma se così è, incalza l’autore, il problema della comprensione dell’opera di Campana diventa un problema di lettura della sua esperienza: non si può davvero conoscerlo senza condividerne l’esperienza. E quindi senza seguirlo attraverso i boschi, le radure e le creste dell’Appennino più selvaggio.

Tale impostazione può sulle prime suscitare perplessità. Sono ben note le pagine veementi che Marcel Proust ha scritto Contre Sainte-Beuve proprio per contestare il peso di qualsivoglia elemento biografico nel giudizio critico delle opere. Non identificazione, raccomanda dunque Proust, ma netta separazione tra vita e opera, fra io mondano e io artistico dello scrittore. C’è da aggiungere che la complicità che Cenacchi ci chiede di avere con Campana, questa richiesta forte, ma anche tenera e commovente, di essere come lui, è qualcosa di affascinante, ma può avere risvolti inquietanti. Che cosa accadrebbe se usassimo lo stesso metodo con altri scrittori? Dovremmo invaghirci di una ninfetta per leggere Lolita? O imbarcarci come balenieri per inseguire Moby Dick? Certo che no. Lo stesso Cenacchi sottolinea che ogni esperienza è unica e irripetibile; ma come è possibile allora immedesimarsi del tutto, coinvolgere le stesse emozioni, mettere in gioco gli stessi sentimenti? E tuttavia, sostiene Giovanni, la montagna è una delle rare opportunità per guadagnare questa difficile e talora terribile congiunzione tra sapienza ed esperienza. Fra tutti gli innumerevoli frammenti esperienziali possibili, quelli relativi alla montagna sono i più ripercorribili.

Messe così le cose, e sgombrando il campo da posizioni intellettuali preconcette, si può anche essere d’accordo, soprattutto se si fa appello alla propria piccola o grande esperienza di lettori. Io stesso, ad esempio, da quando mi è stato dato di frequentare con assiduità le Marche, ho potuto  constatare quanto sia cresciuta nella mia percezione di lettore la valenza, ma ancor di più direi la verità, di certi versi di Leopardi. Negli anni ho fatto più volte a piedi il pellegrinaggio notturno da Macerata a Loreto, passando ai piedi di Recanati, sempre – se non pioveva e se le fasi astronomiche lo consentivano – «vedendo meco viaggiar la luna». Quella luna pallida, che in uno stato di profondissima quiete, quando la notte è dolce e chiara e senza vento, «di lontan rivela / Silenziosa ogni montagna». Una notte, senza bisogno di scapicollarmi a piedi, mi è bastato uscire di casa e andare verso l’orto: «Era la luna nel cortile, un lato / Tutto ne illuminava, e discendeva / Sopra il contiguo lato obliquo un raggio…». Insomma mi è capitato di vedere le stesse cose che ha visto Leopardi e di poterlo dire solo con le sue parole. Cenacchi, dunque, può aver  ragione per quanto riguarda Campana: andare sulle sue tracce, camminare sui suoi sentieri, è un modo sicuro per intendere meglio le sue parole e per conoscerlo. Tanto più che «Le passeggiate e le lunghe peregrinazioni di Dino Campana – scrive Cenacchi – sono ancora tutte lassù sull’Appennino, il deposito di percezioni e sensazioni delle liriche e delle prose interamente disponibile nel percorso degli stessi sentieri e al cospetto dei suoi stessi panorami».

«Panorami» è una parola chiave. Cenacchi, che nel suo rifarsi al concetto di esperienza trova solidi punti d’appoggio nella filosofia ermeneutica di Hans Georg Gadamer, è severo con buona parte della critica letteraria «istituzionale», che accusa di non aver saputo adattare un metodo multidisciplinare alla complessità del fenomeno Campana. A un solo critico, ed è un grande critico, Gianfranco Contini, concede l’onore delle armi, riconoscendo nel giudizio da lui espresso in otto brevi ma illuminanti pagine del 1947, «un paradigma valido ad affrontare tanto i testi di Campana quanto il suo caso poetico e biografico».

Contini sottolinea l’importanza dell’esperienza visiva e presenta Campana come un poeta del visibile, con doti di sicurezza e di plasticità d’esecuzione, e con un investimento di sentimento personale che è sintetizzato nella parola «fede»: perché esclude la bugia, la maniera, lo sfarzo arbitrario, l’abbellimento. Contini scopre inoltre in Campana il primato dell’ordine dello spazio su quello della temporalità, sempre trattata come una costrizione da superare. Da qui la valenza spaziale delle notazioni brevi, una scrittura frammentata che assomiglia alla scansione del paesaggio con la sua successione di particolari che sembrano incoerenti e disordinati e che pure sanno «tenersi» nell’ordine illogico ma sempre percepibile di un solo discorso, di un’unica voce. «È questo – scrive Cenacchi – il nesso lirico a cui si riferisce Contini, un sentimento dello sguardo come esperienza dello sguardo che è già trascrizione, scrittura».

Cenacchi sviluppa questo tema del «sentimento dello sguardo» collegandolo alla pittura di Cézanne, il quale «credeva che la bellezza della natura e quella della sua rappresentazione consistessero allo stesso modo in un ordine che il pittore soleva designare con una parola: il motivo». Come ricorda in un suo libro lo scrittore Peter Handke, richiesto una volta di descrivere che cosa  intendesse con «motivo», Cézanne «accostò “molto lentamente” le dita allargate delle mani le une alle altre, le congiunse e le intrecciò». La bellezza della terra sarebbe dunque un intreccio, una tessitura. «Ci appare – scrive Cenacchi – come un motivo di trama e ordito quando la osserviamo, ed è nello stesso modo che ci avvince quando è trasformata nelle opere d’arte,“’costruzioni e armonie parallele alla natura”».

In queste parole, che fanno da preambolo alla sesta «passeggiata», confluiscono tutti i motivi dei Monti Orfici: i panorami, i dipinti di Cézanne, le poesie di Campana e le montagne di Giovanni. Sono, questi, tutti  «posti» che «condividono una natura di frammenti tenuti insieme da qualcosa d’invisibile». Il disegno di questa tessitura «non appare ma si rivela in un sentimento che spetta a noi esprimere». Perché – osserva Cenacchi individuando anche un cammino per noi lettori – un panorama, un libro di itinerari e un libro di poesie «non sono mai del tutto completi, sono finiti a metà: e ciò che manca loro per concluderne il senso siamo noi, il nostro percorso, il nostro sguardo, la nostra lettura».