Cultura & Società

I terremoti della Passione

di Carlo Lapucci

Viaggiando capita non di rado di sentir raccontare di un luogo di orrida bellezza, d’una zona priva di vegetazione dove la roccia appaia sconvolta da un cataclisma tellurico, la pietra si presenti in un disfacimento, con ammassi informi e scogli nudi e irti, dirupi e forre senza piante né erbe. Facilmente di questi fenomeni naturali vi si dirà che leggenda vuole siano stati un tempo campi fecondi, boschi folti o prati verdeggianti, ma che, al momento della morte del Signore sul Golgotha, il terremoto che ne seguì e che estese la sua forza distruttiva su tutta la terra, devastò per sempre quelle plaghe che non ritrovarono poi la loro fecondità, la vegetazione rimanendo per sempre aride, orride e improduttive.

Vi sono luoghi di notevole estensione, ma anche semplici e modeste frane di pendici montane, o zone delimitate che vengono interpretate in tal modo dagli abitanti delle vicinanze, senza peraltro domandarsi quanto possa essere attendibile un simile rapporto.

Come è nostra consuetudine nell’analizzare il leggendario non ci interessa dimostrare la veridicità delle asserzioni che vengono enunciate dal testo leggendario, quanto capire quale sia il messaggio che quanti hanno celebrato tale leggenda abbiano prima percepito e quindi trasmesso ad altri attraverso la rappresentazione leggendaria.

Siamo convinti che la leggenda costituisca uno specifico nel mondo del pensiero e della comunicazione e, al momento che se ne determinino rapporti precisi di causa ed effetto, spiegazioni di tipo scientifico e analisi dei meccanismi capaci di soddisfare la ragione, essa cessa d’essere leggenda per diventare altro: storia, filosofia naturale, verifica empirica.

Sull’indicazione del testo evangelico la gente ha cominciato a collegare certi aspetti desolati e orridi del mondo con il fatto religiosamente più doloroso e umanamente più toccante che si conosca nel Cristianesimo: la morte di Cristo.

Matteo è l’evangelista che più dettagliatamente riferisce questo fatto. Si legge (XXVIII, 45-53): «Dall’ora sesta all’ora nona si fece buio su tutta la terra […] Gesù, emesso ancora un forte grido, rese lo spirito. Ed ecco che il velo del tempio si squarciò in due parti da cima a fondo; la terra tremò e le pietre andarono in frantumi. Le tombe si spalancarono e i corpi dei santi che vi erano addormentati risorsero. Usciti dalle tombe, dopo la sua resurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti». Al terremoto non vengono dedicate che poche parole. Ciò avviene ancor più vistosamente negli altri evangelisti. Marco scrive che dall’ora VI all’ora IX si stesero le tenebre su tutta la terra e il velo del tempio si squarciò. Luca riferisce che dall’ora VI all’ora IX si fece buio per tutta la terra, il sole scomparve e il velo del tempio si scisse. Giovanni non parla né del terremoto né di altri segni. Tuttavia pochi cenni delle Scritture sono bastati per stimolare la creatività popolare e anche dotta che ha visto in questo fenomeno il pianto della Natura, l’orrore della terra intrisa del sangue del suo creatore in un pianto corale, un terribile brivido di raccapriccio che ha sconvolto le viscere del pianeta e gli immensi macigni, perfino le montagne. Il testo evangelico dice: terra mota est et petrae scissae sunt (Matteo XXVII, 51). Sulla base del fatto che si fece buio per tutta la terra, anche il fenomeno del terremoto abbracciò la terra. Il testo di Matteo dice semplicemente la terra tremò, che di per sé non significa che ciò avvenisse per tutto il pianeta. Fatto sta che piacque pensare come questo fenomeno fosse universale e tutta la Terra abbia partecipato e sentito tale strazio. Questo implica alcune considerazioni complesse, come accade per le vere simbologie semplici. Una è di ordine ontologico: la visione popolare non ha mai respinto fuori della vita religiosa e della finale salvezza ciò che è il mondo: il riscatto di Cristo ha redento con l’uomo il mondo intero. Ancora l’essere umano non si sentiva, come oggi accade, scisso dalla realtà naturale e la viveva come creazione di Dio (in cui è radicata profondamente la sua realtà quotidiana) ed egli stesso si sentiva più che adesso creatura tra le creature. Per questo tante leggende riguardano il mondo naturale, animali, piante, fenomeni vari, e lo collegano alla vita del Redentore a alla sua passione e morte. Vi è in questo molto della visione della religiosità naturalistica del paganesimo, ma anche della prospettiva escatologia cristiana quando, ripiegati cieli come un mantello tutto verrà assunto nella dimensione eterna e i corpi parteciperanno della vita delle anime.

Il secondo tema sotteso a questa leggenda è di carattere morale: se le creature e addirittura la terra, la roccia che appare così amorfa, dura, informe, cieca si è mossa alla morte di Cristo, perché l’uomo può restare indifferente, ostile all’amore divino che lo chiama alla salute eterna? Può essere il cuore dell’uomo più ostinato dei macigni?

Questo pensiero trova dunque la via fantastica e rappresentativa nel sentimento delle cose e si apre un largo ventaglio di immagini nei vari luoghi della terra. Daremo un’occhiata a quelli più vicini, cominciando dal Monte della Verna (Chiusi), dove la tradizione indica uno di questi fenomeni come determinatosi nel momento della Passione.

La tradizione vuole che quando Cristo chiuse gli occhi con l’ultimo lamento, si fece buio sulla terra, il velo del Tempio si squarciò e un grande terremoto scosse la terra dalle fondamenta. Questo terremoto non fu avvertito solo in Palestina, ma tutti i luoghi santi ne furono sconvolti e ne mantengono ancora le tracce. Alla Verna tutta la montagna fu devastata: la cima della Penna franò creando uno spaventoso abisso e in tutto il monte s’aprirono orridi e voragini.

In una di queste sporge paurosamente dalla parete il masso enorme che incombe su chi lo guarda: è il Sasso Spicco, sotto il quale andava San Francesco a meditare e a pregare. È proprio di queste leggende che, quando si pensa di poterle spiegare con l’ignoranza, l’ingenuità e la credulità del mondo passato, spuntano fuori figure tutt’altro che ingenue, ignoranti e credulone che se ne fanno garanti, come in questo caso San Francesco e Dante.

Il fatto che lo sconvolgimento del monte della Verna fosse avvenuto al momento della morte del Salvatore fu rivelato a San Francesco in orazione (I fioretti, LVI): «et allora gli fu rivelato che quelle fessure così maravigliose erano istate fatte miracolosamente nell’ora della passione di Cristo», (v. anche: Guida storica per il viaggio alla Valle-Ombrosa, Verna e Camaldoli, nella provincia del Casentino, III ed., Firenze, 1834.

Molti altri monti in Italia presentano fenomeni insoliti di frane, massi, orridi, sconvolgimenti che vengono attribuiti al terremoto che seguì la morte di Cristo. Così si dice delle zone intorno alla vetta del Monte Amiata e in Sicilia del monte Saturnio o Nettunio, oggi Monte Sprevenio, tra Messina e Taormina. E così del rilievo aperto nel mezzo presso la città di Sotera: «Sta situato questo monte un miglio distante da detta città e tiene seco attaccato un altro monte più piccolo (ch’è quello che si aprì) interponendosi nel mezzo una pianura… La tradizione antichissima lo predica per uno dei monti che si aprirono nella morte di Gesù Cristo, e con questa credenza è anche passata ai posteri la denominazione del medesimo monte, che per questa gran memoria, si è sempre chiamato, siccome oggi si chiama, il Monte Calvario». (V. CXXXII, Impronte meravigliose in Italia, in Archivio delle tradizioni popolari, 1894. Il monte Sciacca si chiamerebbe così proprio perché squarciato, diviso. Altrettanto si dice della Montagna Spaccata, ai limiti del promontorio di Gaeta (Napoli), dove un’orrida fenditura nella roccia sul mare si sarebbe aperta secondo una leggenda popolare, con il terremoto seguito alla morte di Cristo. Presso le fortificazioni del Santuario del Sasso spaccato vi è un taglio enorme nel macigno, prodottosi appunto allorché Cristo, reclinato il capo, emise l’ultimo respiro. Così è rimasto ad ammonimento della verità degli eventi e invito per gli uomini alla fede. Se qualcuno si è mostrato incredulo che così sia stato, talvolta il masso ha rumoreggiato paurosamente, come quando arriva un terremoto, facendo tremare la terra sotto i piedi. Altri mostrano la mano dell’incredulo: l’impronta d’una mano che un incredulo appoggiò sul macigno, dicendo: – Se questo è vero, questa mano lasci la sua orma nella roccia (v. XXXIII, Impronte meravigliose in Italia, cit.). Tale zona in questo ricordo è divenuta sacra: ospita la Chiesa di San Francesco, i ricordi del soggiorno di San Luigi di Tolosa, di San Filippo Neri e, non lontano, sorge il Santuario di Monte Civita. (G. Campolieti, Il Re Bomba, Mondatori, Milano 2001, pag. 346). In Garfagnana la Rocca di Soraggio, nella valle superiore del Serchio (Sillano) starebbe sopra un monte staccatosi da un’altra montagna proprio per il terremoto che scosse quelle terre quando Cristo emise l’ultimo respiro.

A volerne fare una rassegna non si finirebbe più perché sono tanti i luoghi per i quali la leggenda si ripete: a volte modeste frane, orridi, zone sconvolte, come certe radure o gruppi di basalti dell’Amiata, mentre sulle Alpi si spiega con questa credenza la presenza di certi massi erratici di straordinaria grandezza, che si dicono affiorati in concomitanza del sacro evento.

Da segnalare comunque è un luogo singolare sulle montagne di Norcia dove si trova il Lago di Pilato sulle pendici del Vettore. Poco distante c’è l’Antro della Sibilla Appennina, altro luogo magico abitato da Fate. La tradizione vuole che anche questo luogo venisse sconvolto da un terremoto nell’ora della morte del Salvatore creando un laghetto, detto il Lago di Pilato. Le acque traboccarono poi rimasero a lungo rosse come sangue, la grotta della Sibilla rimase deserta e nella zona apparve una pianticella, mai vista prima, le cui foglie avevano forma di due mani congiunte e perforate dai chiodi. (v. A. Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, vol. II, Torino 1925, pag. 165).

Evidentemente ogni tempo ha il proprio modo di pensare e pare proprio che quello della leggenda non ci sia più molto congeniale. Comunque la visione e il messaggio che contiene non ci sono indifferenti e sono portatori di verità per noi ancora condivisibili. Lo sentiamo dal senso di nostalgia che pure emana da questo mondo ormai sepolto. Non che certe cose siano necessarie per credere: i nostri predecessori vi trovavano anche conforto per la fede e occasione di devozione. Quello che è venuto a mancare col ridimensionamento di certe forme di riflessione del passato è la possibilità di collegare l’uomo al mondo e, attraverso il mondo, a Dio; ancor più di vedere Dio nell’uomo e nel mondo come unica luce che illumina la mente e la realtà. Il senso di solitudine e di estraniamento di cui oggi soffre l’uomo sta proprio nell’aver tagliato anche questi piccoli ponti con il trascendente ed avere spento le luci che dal trascendente illuminavano la natura. Erano forse illusioni, ma non è arrivato nulla, proprio nulla a sostituirli o a renderli superflui. L’Inferno, Dante e la morte di CristoNon solo la superficie terrestre conserva le impronte del grande terremoto, ma anche le sue viscere: le grotte, le caverne, gli orridi dove la roccia sconvolta rimane irta, nuda e sterile. Perfino il mondo soprannaturale ne conserva traccia indelebile.Dante, narrando il suo viaggio, nel XXI Canto dell’Inferno (v. 106 e segg.) viene avvertito dal demonio Malacoda che la strada che stanno percorrendo più oltre è interrotta e difficilmente potrà proseguire il cammino con Virgilio. Sono nella V bolgia, quella dei mentitori e anche i demoni mentono: quello che dice Malacoda non è vero, ma siccome la vera menzogna è sempre mista al vero, il demonio spiega quale sia la ragione di questa interruzione: il terremoto avvenuto alla morte di Cristo ha sconvolto anche l’inferno, facendo crollare in frantumi arcate di pietra e passaggi: nelle parole di Malacoda c’è anche la data precisa dell’avvenimento, che Dante ritiene realmente avvenuto. Poi disse a noi: più oltre andar per questoscoglio non si potrà; perocché giacetutto spezzato al fondo l’arco sesto. E se d’andare avanti pur vi piace,andatevene su per questa grotta;presso è un altro scoglio che via face. Ier, più oltre cinqu’ore che questa otta,mille duecento con sessantaseianni compier che qui la via fu rotta. «Non potete proseguire oltre per questo sperone perché il sesto arco (ponte) giace in frantumi nel fondo della fossa. Proprio ieri, più di cinque ore dopo l’ora del giorno in cui siamo, sono compiuti 1266 anni da che si determinò il crollo per il quale la via venne interrotta».Alcuni dati chiariscono questo calcolo. Cristo venne crocifisso nell’ora VI (il nostro mezzo giorno); muore nell’ora IX (le nostre 15), ora in cui avvenne il terremoto che fece tremare il mondo. Tuttavia Dante, seguendo il Vangelo di Luca, ritiene che la morte del Signore (a differenza degli altri Evangelisti) sia avvenuta intorno all’ora VI (nostro mezzogiorno). Quindi l’ora in cui Dante parla con Malacoda sono più di cinque ore avanti il momento della morte del Salvatore era (12-5) vale a dire verso le nostre h. 7. Con altri calcoli si può determinare che sia il 6 aprile del 1300. Il terremoto sarebbe avvenuto quindi, dato che Cristo sarebbe morto secondo Dante a 34 anni (Convivio IV, 23), nell’anno 34 del Venerdì santo, ma è assai difficile determinare il giorno. Dante comunque per ben tre volte fa riferimento a questa credenza. Quel che abbiamo citato si riferisce alla bolgia degli ipocriti; ma aveva già trovato tracce delle rovine tra i Lussuriosi (Inferno V, 34) e nella frana del Minotauro (Inferno XII, 31 e seg.), che Virgilio afferma di non aver visto in una sua precedente discesa agl’Inferi, prima della morte di Cristo.