Cultura & Società

«Il Vittorioso», 70 anni portati benissimo

DI FRANCESCO GIANNONISettanta anni fa, il 9 gennaio 1937, usciva il primo numero del settimanale a fumetti Il Vittorioso. L’operazione era stata voluta da alcuni laici e da un prete, don Francesco Regretti, appartenenti alla Gioventù dell’Azione Cattolica. La Chiesa già da qualche anno aveva cominciato a pensare a un settimanale che potesse insegnare ai ragazzi la dottrina cristiana in modo «moderno» e accattivante, offrendo allo stesso tempo un’alternativa ai periodici a fumetto in voga a quel tempo: L’Audace, L’Avventuroso, L’Intrepido, L’Ardimentoso, Cino e Franco. Questi presentavano storie con protagonisti che alcuni ritenevano pedagogicamente dannosi perché, come dice Piercostante Righini, «erano “eroi” del pestaggio, della violenza, dell’uccisione a freddo, dei ricatti, dei tradimenti, delle sopraffazioni, dell’amoralità, del reato e della illegalità». E poi l’Uomo Mascherato non sposava mai Diana, Mandrake non sposava mai Narda, Topolino non sposava mai Minnie. Già allora si poteva pensare che l’istituzione e il sacramento del matrimonio venissero messi in dubbio.

Il Vittorioso, invece, oltre a pubblicare solo fumetti di produzione italiana, proponeva modelli più consoni all’educazione e alla morale cristiana, personaggi che invitavano a essere «forti, lieti, leali e generosi». C’era anche un altro principio che animava i redattori e i collaboratori del nuovo settimanale: «non l’avventura per l’avventura, ma l’avventura per la vita». Quindi la testata doveva non solo far sognare, suscitare il sorriso e divertire, ma doveva anche far sì che «il giovanissimo lettore avesse nel giornale un caro alleato per le sue personali vittorie e per il crescere della sua personalità».

Bisogna dire che il settimanale tenne fede a questi principi nei racconti, nelle rubriche e nei cosiddetti cineromanzi: in ogni numero c’era la puntata di una storia che poi continuava la settimana successiva. Il cineromanzo aveva origine dal lavoro comune di due autori: lo scrittore e il disegnatore.

I creatori di cineromanzi del Vittorioso furono numerosi ed eccellenti. Facciamo solo qualche nome che risulterà forse sconosciuto ai più: Kurt Caesar, Guido Grilli, Franco Caprioli, Lino Landolfi, e soprattutto Sebastiano Craveri, da tanti considerato il più grande favolista italiano a fumetti. Cosa che non gli ha comunque evitato di morire dimenticato da tutti e in miseria.

Craveri era stato conosciuto da uno dei fondatori del settimanale durante le vacanze sulle Alpi piemontesi. Aveva già fatto esperienze su testate importanti come il Giornale dei Fanciulli e il Radiocorriere dell’Eiar; divenne da subito collaboratore fisso e indispensabile del Vittorioso. Il successo di questo fu decretato dalle storie, ma sarebbe meglio chiamarle favole, inventate e disegnate da Craveri: le prime si intitolarono Zoo Film, Le sette città, Il Carro di Trespoli: entusiasmarono e trascinarono giovani e meno giovani.

I vari sentimenti della nostra natura vennero trasfusi negli eroi da lui creati, animali umanizzati nelle vesti, nei tratti peculiari del carattere, nei dialoghi e appunto nei sentimenti: così, ed è sempre Righini a scrivere, bisogna distinguere «lo stupore di Giraffone, da quello di Bull il grosso cane da guardia; la smaliziata furbizia della piccola scimmia Jojo, dalla furbesca intraprendenza del simpatico cane Lampo; l’incantevole ingenuità dell’orsetto Carboncino, dalla scanzonata sempliciotta e sorridente espressione di Porcellino; la pacata serenità e ponderatezza del pesce Aprilino, dalla sorniona sconvolgente fisionomia ed attività della vivacissima Birba».

Compaiono anche, occasionalmente e di contorno, infiniti personaggi che Craveri ideò e realizzò da solo, senza l’aiuto di nessuno: la gallinella Pipina, il lupo Baionetta, il maiale Padron Grugnito, il gattino Fuffetto, la mucca Cornucopia…

Fra questi c’erano ovviamente anche i «cattivi», ma erano cattivi all’acqua di rose, e comunque perdevano sempre. Il gruppo dei «buoni» poi era costituito da personaggi, che pur nella diversità delle caratteristiche, avevano tutti la stessa importanza; solo Giraffone, essendo il più grosso, diventava un primus inter pares. Quindi Craveri proponeva ai giovani una sorta di società ideale, intrisa di valori cristiani, concretizzando così, nelle favole i principi che animavano Il Vittorioso. Per avere insegnato attraverso le sue storie i valori della vita, nel 1942 Craveri ricevette da Pio XII la nomina a Cavaliere di San Silvestro Papa.

Del Vittorioso può stupire oggi il metodo con cui veniva diffuso: veniva distribuito dai cosiddetti «piloti», ragazzini della parrocchia che andavano in giro, casa per casa, per paesi e città. Ne abbiamo conosciuto uno, ancora entusiasta di quel giornale e delle emozioni che suscitava. È il dottor Mauro Giubbolini di Colle Val d’Elsa che ci racconta dell’orgoglio di essere pilota del Vittorioso. I piloti venivano scelti dal parroco fra i ragazzini più svegli e affidabili. Questi, quando il giovedì usciva il settimanale, di corsa lo andavano a consegnare; e che onore sentirsi grandi potendo esibire il distintivo di pilota: un’ala con su scritto VITT.

Il «giornale» costava 30 centesimi, «io avevo 10 famiglie, perché la mia parrocchia a Colle Val d’Elsa era piccola. Finiva che ci rimettevo la paghetta, perché loro ti davano una lira io non avevo il resto, ma gli davo lo stesso il giornale con la promessa raramente mantenuta che mi avrebbero pagato la settimana successiva. Nel 1941 venne fuori il primo elenco dei piloti italiani: io ero il quinto in tutta Italia».

Questo settimanale di favole a fumetti è stato per Giubbolini e per i suoi amici e compagni l’unico svago di cui potevano godere, perché in città c’erano cinema e teatri, ma in paese… E che attesa per quel giovedì, sempre sospirato con trepidante emozione, per vedere come proseguiva la storia interrotta la settimana precedente da un crudele «continua» che lasciava tutti con il fiato sospeso.

Questo settimanale è stato realmente un educatore della gioventù cattolica dell’epoca, Giubbolini ce lo conferma, e ci narra anche della «settimana Vitt», di quando cioè in parrocchia i ragazzi si riunivano in una stanza e chi sapeva, disegnava i personaggi del Vittorioso.

A Firenze, alla parrocchia del Romito, stava un ragazzotto di Termoli, con il padre ferroviere, che disegnò il carro di Trespoli imitando lo stile di Craveri. Un giorno giunse al Romito l’unico propagandista nazionale del Vittorioso, un veneto di nome Bartolo Paschetta che viaggiava tutta l’Italia, portandosi dietro il cagnolino tenendoselo sulla spalla; vide i disegni del ragazzotto in questione ed esclamò: ma questi sono opera del Craveri! Noo, disse il parroco, li ha fatti un certo Benito Jacovitti. Pascritta prese i disegni e li mandò a Torino a Craveri che commentò: «questo vien su bene, che aspettate a farlo lavorare?» Così cominciò la carriera di Jacovitti.

Ma, nonostante Craveri abbia scoperto il genio di Jacovitti, nonostante sia stato il grande favolista che è stato, nel tempo fu dimenticato da tutti, anche dalla stampa specializzata; e quando, colpito da ictus, si ammalò, passò gli ultimi anni della sua vita in uno stato deplorevole. Giubbolini aveva conosciuto Craveri poco tempo prima della morte avvenuta nel 1973 a Carmagnola. L’idolo di un paio di generazioni viveva solo, in compagnia della moglie e di due pappagallini. Questi erano l’unico segno dell’amore smisurato nutrito da Craveri per gli animali, e furono l’unica eredità che riuscì a lasciare alla moglie. Giubbolini promise al disegnatore piemontese (che aveva creato quelle favole così importanti nella vita del ragazzino di Colle) di salvarne i disegni prima che si perdessero.

Giubbolini ha rivalutato Craveri, è titolare del copyright sui disegni e sulle storie che ripubblica a proprie spese, distribuendole fra i collezionisti, rimettendoci spesso. In occasione del settantesimo anniversario del Vittorioso ha ristampato due albi, l’antesignano del pacifismo «Caporal Meo» e, a colori, «AZ.77.913, il biglietto della lotteria»; augurandosi un ulteriore successo per Craveri, anche se postumo, si domanda il perché di questo trattamento e di quest’oblio. Eppure il grande Pratt, in un colloquio a Venezia gli disse: «di disegnatori in Italia ce n’è solo due: Caprioli e Craveri».