Cultura & Società

Il martirio del vescovo Romero in scena a San Miniato con un grande Antonio Salines

L’altare e la grande croce di legno si incuneano sullo sfondo tra la cattedrale e il Palazzo Vescovile. La scena, come sempre da quel lontano 1947, è quella che ogni estate prende forma sulla storica piazza del Duomo di San Miniato per la tradizionale Festa del teatro promossa dall’Istituto del dramma popolare. L’opera, quest’anno, è Il martirio del Pastore di Samuel Rovinski tradotto e adattato da Eleonora Zacchi. La storia è quella di monsignor Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo salvadoregno, determinato a chiedere il rispetto dei diritti umani per la sua gente e beatificato pochi mesi fa da Papa Francesco.

In platea, per lo spettatore, è come essere tra le panche di una chiesa, rivolto verso l’altare, in preghiera e in ascolto delle parole del celebrante: in questo caso il vescovo Romero, il «microfono di Dio». I quadri si susseguono inizialmente in modo didascalico al fine di presentare il contesto storico-sociale e i fatti nella loro essenzialità.

Romero appare quasi dimesso, più interessato alla propria spiritualità e alla cura delle rose del suo giardino che non alle questioni del mondo, anche di quello a lui prossimo. Ma è un modo per far capire che la sua azione non nasce da motivi sociali né tantomeno politici, la giustizia che poi rivendicherà è propriamente quella del Vangelo. Lo ha sottolineato anche monsignor Vincenzo Paglia, postulatore della causa di canonizzazione di Oscar Romero: questa scelta dell’autore mette bene in evidenza «il cammino interiore che ha condotto l’Arcivescovo di San Salvador a far dono della sua vita per la causa del Vangelo». «Romero – aggiunge monsignor Paglia – era guidato dalla forza evangelica del buon pastore e non si risparmiava per il bene del suo popolo, anche a costo di violenti contrasti sia fuori che dentro la Chiesa».

Del resto la stupenda figura evangelica del «pastore buono» non ha «niente di remissivo, al contrario – come spiega il direttore artistico dell’Istituto del dramma popolare, don Piero Ciardella – essa richiama la tenacia con cui il pastore custodisce il suo gregge, lo tiene unito, lo protegge e lo difende dall’assalto dei lupi». Per questo i momenti più significativi dello spettacolo diventano di fatto le omelie, le potenti parole di Romero. Interessante, al proposito, il riferimento all’uso di un mezzo tecnico come la radio per diffondere parole «scomode» altrimenti nascoste.

Anche così San Miniato si conferma Teatro della Parola con la «P» maiuscola e Teatro della parola con la «p» minuscola. Nel senso che i testi sono sempre molto ispirati e spesso si rifanno direttamente alle Sacre Scritture, ma anche che nella maggior parte dei casi si tratta di testi che si affidano molto poco all’azione scenica rispetto al parlato recitato, rendendo indispensabile un attento lavoro del regista sulla recitazione del singolo attore, che non può non essere che di grande livello. Allora, come nel caso del Martirio del Pastore, se metti insieme uno dei maestri indiscussi del teatro italiano come Maurizio Scaparro con un artista di livello assoluto come Antonio Salines il risultato è garantito. Per di più se accanto al protagonista metti attori come Gianni De Feo e Edoardo Siravo più altri bravi comprimari, il risultato diventa superiore a ogni aspettativa.

Dal punto di vista della vicenda si parte dall’assassinio nel 1977 di Rutilio Grande, gesuita e amico intimo di Romero, per poi seguire la presa di coscienza (determinata – va sottolineato – dal colloquio diretto con Dio) dell’Arcivescovo di San Salvador, che decide di parlare dal pulpito schierandosi apertamente con il popolo contro la dittatura militare e i latifondisti, fino alla sua uccisione, il 24 marzo 1980, in chiesa, durante la Messa, nel momento della consacrazione e dell’elevazione del calice.

L’intensità del finale dello spettacolo è colta molto bene dal vescovo di San Miniato, Andrea Migliavacca, quando parla della vicenda di questo testimone «segnata da un vero cammino di martirio a tappe: la fatica di una sua conversione del cuore e della mente nel comprendere le ingiustizie della società in cui egli veniva ad assumere nuove responsabilità; le diffidenze di alcune gerarchie ecclesiastiche che non hanno subito compreso lo spirito evangelico che guidava questo pastore; il suo ministero che sempre più è diventato denuncia delle ingiustizie per mettersi al fianco dei poveri e degli ultimi; infine il dono della sua vita, proprio nella celebrazione dell’Eucarestia, quasi a dire a tutti la vera ragione di questo sacrificio, il sacrificio stesso di Gesù».

Lo spettacolo, come detto, rende bene l’idea delle profonde motivazioni, più spirituali che sociali, che ispirarono l’opera di Romero. Mentre Maurizio Scaparro conferma che non si tratta di «uno spettacolo centrato su un aspetto politico o religioso, ma sulla vita di quest’uomo, Un uomo che crede e dice le cose nelle quali crede. In questo senso abbiamo voluto sottolineare – spiega ancora il regista – anche l’importanza dei canti popolari sudamericani di resistenza e di amore di quegli anni». E qui va aggiunto un bravo a Gianni De Feo, che di sdoppia tra la convincente interpretazione di padre Grande e il ruolo di cantante con voce sicura e coinvolgente. Anche della bravura di Antonio Salines abbiamo detto, ma vale la pena sottolineare che senza di lui sarebbe un altro spettacolo oltre a ricordare che è stato lui a scoprire il testo e a volerlo portare in scena in Italia. 

Il martirio del Pastore farà tappa anche al Teatro Belli di Roma. Intanto a San Miniato si replica fino al 20 luglio.