Cultura & Società

Il ritorno delle crociate

di Franco CardiniCominciamo col dire che un film si giudica a molti livelli. Io non faccio il critico cinematografico: al massimo sono un cinefilo, se ne avessi il tempo darei sfogo al mio intimo essere e passerei al cinema giornate intere perché sono addirittura un cinomane: però – e sì che ho passato anche sei anni, dal 1996 al 2002, a Cinecittà, come Consigliere d’Amministrazione: e ho visto parecchie Biennali di Venezia – resto, criticamente parlando, un analfabeta. Se un film mi piace, mi piace, punto e basta; e non sono nemmeno troppo bravo a ricordar il nome dei registi (figuriamoci i soggettisti e gli scenografi).

Quindi, se volete conoscere il valore cinematografico di Kingdom af Heaven – bel titolo, banalizzato nella versione italiana dal tristanzuolo Le crociate – rivolgetevi altrove. Io non c’entro. Posso dire semmai che, sotto il profilo spettacolare, il superkolossal diretto e prodotto da Ridley Scott non è male.

Va ricordato che a lui si deve lo splendido Blade Runner del 1982, dove già si affrontava, del resto, il tema del medioevo: sia pure non di quello passato bensì di quello «prossimo venturo», liberamente ispirato al romanzo Il cacciatore di androidi di Philip K. Dick. Confesso di aver apprezzato meno Il gladiatore del 2000, un remaking ispirato fin troppo fedelmente a La caduta dell’impero romano del 1964 in cui il regista Anthony Mann era riuscito a portar sul set, insieme, nientemeno che Alec Guinness, Christofer Plummer, James Mason, Anthony Quayle, Mel Ferrer e Omar Sharif: un cast davvero d’eccezione, illuminato da una giovane Sophia Loren forse un po’ imbranata ma, perdinci, bellissima.

Ignoro se nelle primitive intenzioni di Scott vi fosse o meno l’idea di girare un altro remaking, ispirato a I crociati di Cecil B. de Mille, vecchio film del ’35 e uno suoi meno riusciti del grande genio del kolossal. In effetti, almeno nella scena del grande assedio del 1187 a Gerusalemme, una qualche ispirazione dall’analogo assedio di Acri del 1192 girato dal grande cineasta americano si potrebbe cogliere: mai io sarei piuttosto dell’avviso di scorgervi una volontà d’emulare l’a tutt’oggi inarrivabile assedio a Minath Tirith nel terzo film della trilogia de Il Signore degli Anelli di Peter Jackson.

Altre reminiscenze e talvolta citazioni del filone medievale crociato-cavalleresco hollywoodiano (Robin Hood, Ivanhoe, Riccardo Cuordileone eccetera) si colgono in effetti qua e là, nella pellicola-fiume dedicata alla conquista musulmana di Gerusalemme del 1187 e dunque ai precedenti della cosidetta «terza crociata».

Durante la conferenza-stampa romana del 20 aprile scorso, dopo l’anteprima in lingua originale offerta alla stampa al cinema «Fiamma» di Roma, Scott ha richiamato alcuni film dai quali ha tratto ispirazione: ad esempio Il settimo sigillo di Ingmar Bergmann, che si scorge bene nelle sequenze iniziali, con la fucina del fabbro e l’uccisione del prete ladro. Non c’è dubbio che il capolavoro del grande regista svedese è forse il film nel quale la crociata, che vi entra soltanto marginalmente (la trama è il racconto del ritorno di un crociato stanco e deluso), è stata resa con maggior potenza artistica e al tempo stesso con più penetrante intuito storico. Se dovessi far un elenco dei film che hanno còlto meglio lo «spirito» dell’avventura crociata, mi limiterei a citare Il settimo sigillo di Bergmann e, da un diversissimo punto di vista, ebbene sì!, il Brancaleone alle crociate di Monicelli.

Ma che giudizio storico dare de Le crociate di Ridley Scott? La sceneggiatura è di William Monahan, le scenografie di Arthur Max, la musiche di Harry Gregson-Williams, la supervisione musicale di Marc Streitenfeld, i costumi di Janty Yates: tutto è ampiamente e puntigliosamente ricordato in un voluminoso dossier preparato per la stampa, il giorno dell’anteprima, dallo studio Lucherini Pignatelli di Roma. Ivi s’informa che «le Crociate furono in tutto otto» (p.7), correggendo Pavese che, nei Dialoghi con Leucò, ci aveva già avvertiti ch’esse erano in effetti state più di sette, si dà attento conto della trama provvedendo ad anglizzare i nomi dei protagonisti (re Baldovino IV di Gerusalemme diventa dunque Baldwin, Raynaud de Chatillon è ribattezzato Reynald e Ugo conte di Tiberiade diventa Tiberias), e s’informa che la tragedia di quel tempo fu che vi fossero tanti «fanatici estremisti».

Lo sceneggiatore Monahan, si viene scrupolosamente informati, «si è basato sulle fonti primarie, utilizzando i veri racconti (tradotti) …cercando di evitare le innumerevoli interpretazioni scritte nel corso dei secoli»; e «le sue ricerche lo hanno portato a scoprire che Re Baldwin (sic) e Saladino erano veramente riusciti a giungere ad una tregua…» (p.15).

Ovvero, la scoperta dell’acqua calda. Il risultato delle «ricerche» di Monahan è lì, spiattellato da secoli – almeno da circa due, dall’uscita dell’Histoire des croisades di Jean-François Michaud, uscito nel 1808 nella Parigi di Napoleone e poi più volte ristampato e tradotto – ; le vicende delle crociate sono da allora state più volte riraccontate, dall’Alphandéry al Grousset al Runciman al Dupront a tanti altri fino allo standard work in molti imponenti volumi pubblicato proprio negli Stati Uniti d’America, tra Princeton e Milwakee.

Ci sarebbe voluto davvero poco ad assicurarsi la collaborazione di qualche specialista. Ma, scorrendo il team dei collaboratori di Scott, non si vede l’ombra di un consulente storico. «Scott sottolinea – prosegue implacabile il dossier distribuito ai giornalisti – che ha voluto realizzare un film che prende spunto da eventi storici realmente accaduti e non un documentario». Difatti, è proprio questo il punto. Se il produttore-regista avesse optato per il rispetto quanto più rigoroso fosse stato possibile della realtà storica, non è detto che il risultato artistico sarebbe stato peggiore; altrimenti, lo spunto avrebbe potuto esser libero e il richiamo alla crociata soltanto di circostanza, un vago sipario «storico» accessibile a tutti.

Invece, no. Il guaio è proprio questo. Si è preferito la formula dello «spunto da eventi storici»: vale a dire la semistoria, i personaggi e i fatti in parte veri ma fatalmente equivocati o falsati, l’ammiccamento alle «costanti» della storia e all’«insegnamento» che se ne può trarre ma al tempo stesso l’arbitrio interpretativo. Il soggettista ha leggiucchiato qua e là, alla ricerca del dato impressionistico e impressionante: ci si è fatalmente imbattuti in Renaud de Chatillon, un perfido ma valoroso e affascinante feudatario-bandito, e lo si è trasformato in un ridicolo bestione; si è affrontato il tema della battaglia di Hattin del luglio del 1187 e si è seguito alla lettera il racconto del cronista arabo Imàd ad-Din secondo il quale il Saladino giustiziò di sua mano il perfino Renaud, ma senza comprender nulla dello spirito dell’episodio; si sono condite le sequenze relative all’assedio di Gerusalemme dell’ottobre 1187 con noiose quanto banali dichiarazioni d’agnosticismo religioso del difensore Balian d’Ibelin (altro grande feudatario di Terrasanta, questi, e mai fabbro bastardo in Francia!), ma si sono completamente fraintese figure come il patriarca di Gerusalemme Eraclio o episodi come il permesso, dal Saladino accordato ai difensori della città, di uscirne liberamente dopo la capitolazione.

Il disprezzo sistematico per la storia non si è arrestato ai fatti: si è esteso agli abiti e alle armi («eccessivi», gli uni e le altre: specie gli ordigni d’assedio e le artiglierie), alle scene per le quali ci si è costantemente ispirati ai pittori «orientalisti» del Romanticismo, alle musiche (esistono interessanti musiche d’ambiente crociato, del tutto trascurate).

Occasioni perdute. Una per tutte: la figura quasi protagonista del Saladino, dove nonostante tutto passa qualcosa della sua «leggenda», da Dante e dal Boccaccio fino al Lessing di Nathan der Waise e al Walter Scott di Il Talismano. Ma la leggenda del Saladino è un capitolo fondamentale nella costruzione dell’identità «occidentale»: lo hanno capito, Scott e i suoi collaboratori? Lo stesso valga per il mixing di tradizioni europee e di atteggiamenti «all’orientale» proprio degli ambienti aristocratici crociati, e dei quali regista, soggettista, costumista e adattatore delle musiche sembrano consapevoli: ma la realtà della costruzione della prima «società coloniale» della storia europea non riesce ad emergere e il suo messaggio non sa raggiungere lo spettatore.

Un racconto «fedele» – riscritto da uno sceneggiatore che avesse rinunziato a «far ricerca» (!?) e si fosse limitato, che so, a seguire fedelmente il vecchio Runciman – non avrebbe peggiorato il film (al contrario!) e avrebbe aiutato magari lo spettatore a capirci qualcosa. Ma Scott è ambizioso: e vuole infliggerci anche il fervorino civico e attualizzante. E difatti, appaiono decisamente stucchevoli e inopportuni sia lo schema «ideologico» – tutto giocato, nel campo cristiano come in quello musulmano, sul contrasto tra i «falchi» che vogliono il «conflitto di civiltà» e le «colombe» desiderose di «dialogo» –, sia le correlative velleità moraleggianti e attualizzanti. Lo sceneggiatore ha voluto contrapporre le due chimere dell’oggi massmediale, lo «scontro di civiltà» e il «dialogo»: e ha ridotto a una lotta tra «moderati» e «fondamentalisti», goffamente allusiva al presente, quella che alla vigilia della terza crociata si svolse effettivamente in Terrasanta, ma ch’era lotta tra due fazioni aristocratiche del regno crociato per impadronirsi del potere. Un uso demagogico e attualizzante della storia pesante e pervicace, vòlto a persuaderci che il passato e il presente sono confrontabili e che la lezione della storia va presa alla lettera perché nulla mai cambia.

Un parallelismo forzoso e arbitrario che insiste su alcune somiglianza di superficie per tradire profondamente il senso delle vicende di nove secoli or sono che vorrebbe narrare.