Cultura & Società

La fede aiuta i malati: lo dicono i medici

La spiritualità, la religiosità, la fede del paziente possono rendere più efficaci le cure: e prendere atto della dimensione spirituale del malato aiuta il medico nel suo lavoro. A dirlo sono gli stessi medici che su questi temi si sono confrontati, nella sede dell’Ordine dei Medici, in una tavola rotonda dal titolo significativo: «La spiritualità del paziente nell’era della tecnologia». Tra gli organizzatori c’era Stefano Lassi, psichiatra, vicepresidente dell’Associazione psicologi e psichiatri cattolici della Toscana e responsabile del Centro riabilitativo di Diacceto dell’Oda (Opera diocesana assistenza).

Medicina e spiritualità: un tema di cui in ambito internazionale si parla da molti anni, e che anche in Italia sta finalmente trovando attenzione. Se ne è parlato di recente a Firenze in una tavola rotonda organizzata insieme all’Ordine dei Medici. Come si è arrivati a quell’incontro?

«Ci siamo posti, come associazione a livello toscano, l’obiettivo di portare avanti questa tematica, quella cioè del rispetto e della promozione, nella relazione terapeutica con il paziente, della sua dimensione spirituale. Questo lo abbiamo fatto fin dal 2008, dai primi convegni che l’associazione ha organizzato, mettendo sempre al centro della nostra discussione questa tematica. Perché questo bisogno, il bisogno di riscoprire anche la dimensione spirituale nel rapporto con il paziente? Fondamentalmente perché ce lo chiedono i paziente: noi stessi, noi professionisti ci troviamo in difficoltà a volte ad affrontare queste tematiche. È stato un percorso complesso, che ha necessitato di una serie di confronti e discussioni. Certamente il primo motore, che ci ha portato poi a coinvolgere l’Ordine dei Medici, è stata la letteratura scientifica. Come professionista attingo a questo bagaglio che è quello della letteratura scientifica, per poter muovermi in modo scientificamente adeguato. E la letteratura è ricchissima in questo senso: più di tremila evidenze scientifiche dimostrano come la spiritualità, la religiosità entrano come fattori importanti, da valorizzare, nell’aiutare il paziente ad affrontare la malattia».

Quindi non si tratta solo di rispettare la libertà religiosa del paziente, ma di trovare nella sua spiritualità o religiosità un elemento che può aiutare l’efficacia delle cure.

«Assolutamente. Esistono come dicevo delle evidenze che dimostrano come non soltanto in ambito psicologico e psichiatrico, come si può pensare, ma anche in ambito medico, di salute generale, cardiologico, endocrinologico, ci sono degli effetti positivi. Si parla di un miglioramento della resilienza del paziente, cioè della capacità di affrontare gli urti e le patologie in modo più adeguato e più energico. È ovvio che questo diventa un elemento importante che non può essere sottovalutato nella pratica clinica né tantomeno può essere limitato. Ma devo dire di più: l’approccio che come medico, come specialista dobbiamo tenere nei confronti di una persona che si trova in situazioni di patologia cronica, o di fine vita, situazioni che mettono alla prova il paziente, noi dobbiamo tenere conto di questi valori che, ci dice il mondo scientifico, aiutano la persona ad affrontare con maggiore forza e con migliori risultati. Abbiamo da poco ricordato i cinque anni dal terremoto de L’Aquila: tra i lavori che abbiamo in Italia, purtroppo pochi rispetto ai moltissimi dei paesi anglosassoni, ci sono gli studi legati all’incidenza e all’importanza che la spiritualità ha avuto nel confrontarsi con la tragedia del terremoto. In quell’occasione abbiamo visto una riduzione dell’impatto in termini di suicidi, in termini di capacità di resistere».

Un tema che non è teorico quindi ma che incide sul modo di curare le persone. Forse si tratta di costruire un’alleanza tra scienza, medicina, e spiritualità: due aspetti che invece si è teso a separare.

«Questo è uno egli aspetti che nasce dalla concezione di laicità. Laicità intesa come limitazione del potere che il mondo religioso poteva avere nella gestione di alcune istituzioni, che poi è stata traslata in quella che era la visione positivista della medicina che ha portato a pensare che l’atteggiamento del terapeuta, del clinico, debba essere neutro rispetto alla dimensione religiosa. Questo è giusto, ci mancherebbe: ma la neutralità troppo spesso è stata poi interpretata come negazione. È chiaro che ci sono i rischi legati a fanatismi, a esasperazioni della religiosità. Ma certamente come dimensione valoriale da promuovere, come elemento di libertà da ascoltare a valorizzare, quello della libertà religiosa è un argomento essenziale. Dirò di più: troppo spesso su questa presunzione di neutralità noi medici, noi terapeuti ci riteniamo al di fuori dalla possibilità di un coinvolgimento personale: in realtà ognuno di noi risente, in modo anche inconsapevole, di quello che è il proprio tessuto valoriale, esistenziale»

In questo senso è utile anche per medico avere una maggiore consapevolezza…

«Gli psichiatri e gli psicologi in teoria dovrebbero avere questo percorso come parte del proprio cammino professionale, che li porta poi ad affrontare con atteggiamento libero il paziente. Però lo dovrebbero anche dichiarare»

In una società multiculturale e multireligiosa questo tema significa anche essere pronti ad avere a che fare con realtà diverse?

«Questo è emerso nella tavola rotonda con l’Ordine dei Medici come elemento critico: se noi non conosciamo cosa c’è dietro le persone, la loro spiritualità, la cultura religiosa, manchiamo anche nell’accogliere le istanze e i bisogni del paziente».

Questo fa parte dell’esigenza di una medicina più centrata sulla persona: senza negare o trascurare l’importanza della tecnologia o della ricerca scientifica ma facendo attenzione al paziente in tutti i suoi aspetti, compreso quello religioso.

«Uno degli argomenti che più è stato discusso è proprio la presa d’atto che la medicina sta cambiando: l’Ordine dei Medici spesso ha messo in evidenza come la medicina sia passata dalle ultraspecializzazioni che tendono a spezzettare la persona in base alle malattie, ad una  medicina che cerca di nuovo di porre al centro l’uomo, la persona. Una medicina narrativa, dove si ascolta la storia della persona, ci si coinvolge».

Al convegno si è parlato anche del «ben soffrire» e del «ben morire». Cosa significano queste definizioni?

«Come si può immaginare, è un tema questo che in qualche modo viene discusso e affrontato quotidianamente da chi ha a che fare con patologie di tipo cronico e con le fasi di fine vita o di inizio vita. Il prendersi carico non solo del curare ma anche del lenire, del supportare, dell’aiutare a sopportare la sofferenza certamente fa leva anche su alcune dimensioni che sono quella spirituale e quella religiosa, che non solo non possono essere negate o limitate ma neppure sottovalutate per l’impatto che possono avere».