Cultura & Società

La lunga prigionia del comandante Salvatore De Vita

«Non ci consideravano prigionieri di guerra, e dalla Croce Rossa non si ebbe alcun aiuto; non ci consideravano nemmeno deportati e per i tedeschi eravamo solo traditori e badogliani. Nell’ordine del “trattamento” venivamo considerati, dopo i giudei gli zingari e gli anormali, alla pari dei prigionieri sovietici». Così scriveva su La Stampa Mario Rigoni Stern, il 7 marzo 2001, in un articolo dal titolo significativo: «Noi internati, schiavi del Reich».

Furono un milione i militari italiani che i tedeschi disarmarono all’indomani dell’8 settembre 1943. Ne catturarono 810 mila. Di questi, 94 mila optarono subito per la Rsi o le SS italiane, come combattenti o ausiliari. Gli altri furono deportati in campi di detenzione. In 600 mila resisterono ad ogni richiesta di adesione alla Repubblica di Salò, rimanendo internati negli Stalag (per sottufficiali e truppa) o negli Oflag (per gli ufficiali). Non erano dei veri Lager, ma le condizioni di vita vi assomigliavano molto. Se all’inizio erano considerati prigionieri di guerra, dal 20 settembre 1943, con l’acquiescenza della Rsi, vennero classificati da Hitler come «internati militari italiani» (Imi), per sottrarli alla Convezione di Ginevra sui Prigionieri, del 1929, e poterli utilizzare come «schiavi» nei lavori più faticosi. In migliaia persero la vita per malattie, fame, stenti, uccisioni. I sopravvissuti rimasero segnati per sempre. Ignorati durante la guerra, lo furono anche dopo. E ci vollero mesi prima che potessero rientrare in Italia. Vennero accolti con un misto tra sospetto e fastidio e molti dovettero anche tornare sotto le armi per completare il periodo di ferma interrotto dalla detenzione. Solo da una ventina d’anni si è acceso qualche riflettore sulla loro storia, mettendo in luce il loro «eroismo quotidiano». Alessandro Natta ha raccontato ad un convegno sugli Imi, tenutosi a Firenze nel 1991, di aver scritto nel 1954 una riflessione-testimonianza su quella esperienza drammatica che anche lui aveva vissuto, ma a quel tempo il suo partito, il Pci, non volle che venisse pubblicata. Lo sarà solo nel 1997 con il titolo «L’altra resistenza. I militari italiani internati in Germania», (Einaudi).

Preziosi sono allora i diari curati dai nostri internati militari che stanno pian piano riaffiorando. Come quello che i nipoti del tenente colonnello Salvatore De Vita hanno ritrovato a trent’anni dalla morte del nonno. Più di mille pagine manoscritte, spesso su fogli di carta velina fronte-retro, rimasti per anni in soffitta. «Salvatore era il nostro nonno paterno», raccontano Maria Cristina, Giorgio e Annalisa De Vita. «A noi (intendiamo i tre nipoti, figli di suo figlio Elio) in verità raramente ha parlato della sua vita militare: ogni tanto un accenno, quando le circostanze o il contesto lo suggerivano, ma il nonno non si è mai compiaciuto di parlarci delle sue esperienze belliche». Campano trapiantato a Pistoia, dove si era sposato, Salvatore De Vita aveva già combattuto la Prima guerra mondiale e poi la guerra d’Abissinia. Nel 1940 dovette tornare al fronte e l’armistizio lo colse a Corinto, in Grecia, dove comandava una Base militare.

Il suo diario, pubblicato dal nipote Giorgio De Vita con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, non ha ovviamente pretese letterarie. Lui stesso era consapevole dell’uso puramente «terapeutico». «Scrivo perché ogni giorno ho preso a scrivere, perché ho giurato di non saltarne nessuno, ma oggi non avrei proprio nulla da dire: il solito malcontento, la costernante mancanza di notizie da casa», annota un giorno. Era il suo modo di sentirsi vivo, di mantenere la speranza di poter tornare a casa, di ricordare i propri cari, dei quali non ebbe a lungo notizie, di non farsi dominare dalla disperazione.

Il diario inizia, con una ricostruzione evidentemente scritta a posteriori, del giorno dell’armistizio. La notizia arriva per bocca del cap. Piceni alle 19,30 di sera. De Vita telefona al Comando Settore ma non sanno dirgli ancora nulla di ufficiale. Solo alle 2,30 della notte arriva un fonogramma nel quale «si diceva presso a poco di stare calmi e di attendere gli eventi». All’alba del 9 settembre 1943 tutto sembrava procedere regolarmente nella Base Militare 12 del settore autonomo di Corinto. Gli ufficiali si interrogavano su cosa avrebbe comportato l’armistizio annunciato il giorno prima e attendevano ancora istruzioni. Alle 8 scatta l’attacco nazista. Il tenente colonnello Salvatore De Vita fu avvertito che i carri tedeschi circondavano i depositi mentre la fanteria disarmava gli italiani. Si attaccò al telefono per avere istruzioni dagli Alti Comandi a Corinto e ad Atene. Ma nessuno rispose. «Occupazione, disarmo, cattura: tutto era avvenuto rapidamente – scrive lo storico Giorgio Petracchi, nell’introduzione al volume – Ancora stordito, il col. De Vita stentò a rendersi conto di come dei “camerati”, alleati fino ad un’ora prima, si fossero improvvisamente trasformati in brutali nemici». Dopo qualche giorno di arresto in un improvvisato reclusorio, fu trasferito ad Atene e da lì iniziò il suo triste pellegrinare per il Terzo Reich, ammassato con altri ufficiali in vagoni bestiame, dai quali potevano uscire solo poche ore al giorno per fare i loro bisogni in condizioni impossibili. Prima a Trier (Treviri), attraversando dal 21 settembre all’8 ottobre Grecia, Macedonia, Jugoslavia, Bulgaria, Romania e Ungheria. Una settimana dopo il trasferimento al campo di Biala Podlaska, in Polonia, dove arriva il 21 ottobre. Il 2 novembre è di nuovo su un carro bestiame che lo porterà al campo di Czestochowa (Stammlager 367) dove resta 9 mesi. Nell’agosto del 1944, sempre in treno, il trasferimento al campo di Norimberga (Oflag 73 – Stalag XIII D). Il 30 gennaio del 1945 riparte in treno verso Dresda fino al campo di Mühlberg Elbe, dove arriva il 4 febbraio. È lì quando il 23 aprile arrivano i russi a liberare i prigionieri. Dopo una marcia di oltre 100 km in 4 giorni arriva a Spremberg. Ma solo il 2 settembre 1945 potrà finalmente iniziare il suo viaggio di ritorno a Pistoia, dove arriva il 13 settembre, alle 3 di notte.

Sono pagine intense, minuziose nelle descrizioni, venate anche da un certo umorismo campano. Scorrendole si capisce che se poté tornare vivo è anche grazie a quel suo diario, oltre ad una forte autodisciplina, ad una grande fede in Dio e all’amore per i suoi cari.

Salvatore De Vita, Diario di prigionia 1943-1945. Un Ufficiale italiano nei campi di internamento nazisti, a cura di Giorgio De Vita, ed. Gli Ori, Pistoia 2016

La scheda

Il tenente colonnello Salvatore De Vita nasce a Capua il 22 maggio 1893. Il 29 dicembre 1911 si arruola volontario presso il 31° fanteria e il 1° marzo 1915 è sergente maggiore nel 64° Reggimento fanteria. Dopo poche settimane l’Italia entra in guerra e, il 14 giugno, Salvatore giunge nei territori dove si combatte. Il 27 febbraio 1916 diventa sottotenente in servizio attivo permanente, per merito di guerra, e il 15 maggio viene fatto prigioniero al Monte Coston. Il 20 luglio viene promosso tenente. Il 12 novembre 1918, a seguito dell’armistizio, rimpatria e giunge ad Ancona, nel Centro di raccolta ex prigionieri.

Il 30 marzo 1919 viene inviato in Albania: imbarcatosi a Brindisi, il 4 aprile sbarca a Valona. Il 6 luglio diventa capitano. Il 19 febbraio 1920 sposa Ida Cataldi e il 14 agosto 1922 nasce la primogenita Iside, prematuramente scomparsa il 2 gennaio 1938. Gli altri due figli saranno Elio e Gianfranco. Nel 1922 gli viene attribuita la «Croce al valor militare» e nel 1928 viene assegnato al distretto di Pistoia, nell’83° Reggimento fanteria. Nel settembre 1937 viene promosso maggiore.

Il 30 giugno 1940 parte di nuovo per la guerra e il 23 aprile 1942 diventa tenente colonnello. Il successivo 12 giugno parte da Brindisi per assumere il comando della Base militare 12 del Settore Autonomo di Corinto, agli ordini  del gen. Riccardo Mattioli (11ª Armata, VIII Corpo  d’Armata).

Il 9 settembre 1943, giorno successivo all’armistizio, viene catturato dall’esercito tedesco e internato in vari campi, in Germania (Trier, Norimberga, Mühlberg Elbe) e Polonia (Biala Podlaska, Czestochowa). Riesce a tornare a casa, a Pistoia, dopo più di 2 anni, il 13 settembre 1943. Nel 1950 viene  decorato con la Croce al merito di guerra.

Dal Diario

Giovedì 21 ottobre: L’arrivo a Biala Podlaska. Alle cinque giungiamo a Biala Podlaska. È il luogo dove ci fermeremo. Qui fa proprio freddo freddo. Alle sette ci fanno scendere, ci inquadrano per cinque e ci conducono al campo. È un’ora di marcia. Prima che termini l’appello, che ci sistemiamo in baracche, ecc., si fanno le 14. Siamo tutti intirizziti. La fame ha raggiunto le stelle. Il campo è una solenne porcheria. Meglio una stalla ben tenuta, che queste luride e schifose baracche. È un campo che era stato chiuso, perché la commissione internazionale della Croce Rossa l’aveva dichiarato inabitabile e pericoloso per gli esseri umani. Lo riaprono per noi: 20 in una cameretta, con 10 lettini biposti. Pagliericci come quelli di Trier, luridi e fetenti. Latrine che fanno ribrezzo. Mancanza assoluta di acqua potabile. Distribuiscono pertanto circa un litro d’acqua bollita, leggermente tinta non si sa se di tiglio, malva sambuco, o camomilla. È un sapore che non distinguo bene. Roba amara che la gran sete lascia strozzare ugualmente. Ci hanno dato una copertina, perché qui fa gran freddo. Una lanterna a petrolio completa il mobilio della camera. Noi ci procuriamo un tavolo e due panche, così staremo un po’ seduti. Lavandini non ne esistono: c’è una pompa azionata a mano da cui si può attingere acqua puzzolente e infetta, eppure si fa la coda per prenderne un po’ per lavarsi. Ho sentito un capitano tedesco dire nella sua lingua ad altro tedesco: «Questi maledetti traditori vogliono fare a modo loro». Poi non ho più potuto seguire il loro discorso. «Traditori!». Ecco spiegato il trattamento che ci usano. Oggi hanno ragione loro, hanno il coltello dalla parte del manico; è bene, quindi, sopportare, avere pazienza: finirà! Penso un po’ ai guai miei e della famiglia; alla sorte che potrà esserci riservata così lontani come ci troviamo l’uno dagli altri (Pistoia è ben lontana da Biala) e poi me ne vado a letto lieto e soddisfatto di potermi almeno una sera sdraiare completamente su un mucchio di trucioli. Do un sospiro di sollievo, un saluto a mia figlia, un pensiero affettuoso ad Ida, Elio e Gianfranchino e infine chiudo gli occhi con l’intenzione di dormire. Venerdì 5 novembre: La proposta di aderire alla RsiAlle 14 ci chiamano in riga, perché una commissione italo-tedesca deve parlarci e domandare chi di noi opta per il governo repubblicano ed è disposto a combattere nei ranghi dei tedeschi contro il comune nemico della Germania e dell’Italia. Io mi domando: ma di grazia, chi è questo nemico? Forse gli altri italiani che al comando di Badoglio combattono per liberare l’Italia dal tedesco? Non ci capisco più nulla. La missione è capeggiata dal generale di corpo d’armata Ecc. Caturni. Si è presentato male perché tra l’altro ci ha fatto attendere un’ora. Alle 15 il generale, salendo su un tavolo, ha esordito così male, ha impostato la quistione in modo tanto sballato, che subito quasi tutti, alle prime parole, siamo andati via. Sono rimasti a sentire quello che diceva solo 12 persone, delle quali, a quanto pare, hanno aderito 5-6 ufficiali.