Cultura & Società

Lunigiana, in bicicletta alle sorgenti

L’ultimo sbuffo e poi finalmente si arriva al passo. Sulla Cisa, il cielo si apre e lo sguardo abbraccia l’intera Valle del fiume Magra («La Magra», come la chiamano da questi parti). Ad attenderci sulla destra una cappella dedicata alla Madonna della Guardia: «il 29 agosto di ogni anno arrivano frotte di pellegrini», ci spiega un signore del luogo. Si fatica a credere che il tracciato più antico di questa strada, la SS62, sia romano. Fu il console Emilio Scauro ad aprire, per primo, il contatto tra la riviera ligure Toscana e l’entroterra padano. Nel Medioevo, fu istituzionalizzata come via dei pellegrinaggi: era parte del percorso di Sigerico, la celebre «Via Francigena», e ora andarci in bicicletta rende questo passaggio ancora più suggestivo.

Iniziamo il nostro itinerario la mattina presto, il sole è ancora dietro le Apuane. Il cammino procede verso Montelungo e Pontremoli. Ci fermiamo alla prima sorgente, proprio lungo la strada. Reca un’insolita raccomandazione, sul marmo della fontana: «Rispetta la natura, non lordare». Sembra un vero e proprio programma di vita, un invito ad avere rispetto del mondo che hai di fronte. E poi con quel verbo antico e solenne, come non essere d’accordo? Lordare è insozzare l’ambiente, è molto di più che inquinare perché suppone una partecipazione «morale» all’azione deturpante. L’aria è pulita, le abetaie e i pascoli con i diversi gradienti di verde, inducono a pensieri liberi e a ricordi di scuola. I Malaspina, ad esempio, che dal XIII secolo qui imposero il loro dominio dividendosi in due celebri rami: lo spino fiorito e lo spino secco. L’uno, con Opizzino, fu onnipresente nei territori del feudo che sorgevano lungo la destra orografica del fiume Magra, ed ebbe come capitale Mulazzo. L’altro, il «secco», si instaurò nella parte sinistra, ponendo la sua residenza a Filattiera. Il viaggio in bici offre l’opportunità di vedere e di ricordare. Di andare avanti e indietro nel tempo. Un viaggio nel viaggio.

A Montelungo – siamo scesi di 200 mt di quota, rispetto ai 1014 del Passo – paese di matrice benedettina, c’è una acqua speciale, «La fonte della Virtù» che cura i calcoli renali. Dispute tra il Vescovo di Luni e i monaci per anni hanno segnato il territorio. Qui c’è un senso di libertà, la voglia di non sottomettersi ai poteri forti. Le persone sono accoglienti, in un attimo mi trovo di fronte alla sorgente situata pochi metri prima dell’abitato. Purtroppo è circondata da sterpaglie, mentre dietro ad essa, su un edificio restaurato, spicca un grande cartello «Terme di Montelungo». Terme mai inaugurate. Un progetto, un sogno rimasto lì, simbolo di cattiva amministrazione. Bevo «acqua della virtù». È leggera e quasi evanescente. Le donne del posto dicono che non bisogna lavarsi denti – perché si potrebbero staccare improvvisamente – e gli uomini ne apprezzano le qualità diuretiche.

Subito fuori Montelungo, sulla sinistra inizia una strada «campagnola», – ricalca l’antico cammino della Francigena – che porta a Cavezzana d’Antena. Si procede adagio, in discesa, in un ambiente dominato dalla wilderness lunigianese: solo poche tracce umane e qualche testimonianza della cultura contadina. Scesi di altri 200 mt, a ridosso del piccolo paese, proprio nell’ultima curva, prima di riguadagnare la strada asfaltata, troviamo un improvvisato cancello di legno. L’odore di «uovo marcio», segno inconfondibile della vicinanza di un’acqua sulfurea, impregna l’aria e penetra nelle narici con un senso nauseabondo. Pochi passi, e una lunga striscia bianca ci accoglie in mezzo ad un castagneto in fiore. L’acqua esce abbondante da una cannella e sulle pietre è ben visibile il deposito calcareo. Bevo con una certa apprensione: è amara, è accettabile. Prima di innestarci sulla via comunale, lo scheletro in muratura di un edificio non finito, sbuca da dietro una siepe di rovi, apparentemente senza significato. Che cosa è? Chiedo ad un signore del luogo. «Qui doveva nascere un centro termale…» mi risponde con tono rassegnato e aggiunge, «ma il progetto è naufragato». Altri soldi pubblici gettati… alle ortiche.

Ora il percorso si fa più lieve e pianeggiante. Dobbiamo correre per arrivare a Mignegno, riprendere la SS52 e poi superare Pontremoli, la città che, secondo una tradizione sempre più accreditata, corrisponde all’antica Apua, la «capitale dei liguri apuani». È qui che ogni anno si celebra il Premio Bancarella, l’unico premio letterario gestito esclusivamente dai librai. Nella prima edizione, nel 1953 i librai, anticipando la giuria del Nobel, premiano Hemingway con «Il vecchio e il mare». Ancora acqua scorre nella fantasia, con il pescatore Santiago che sfida la Natura con coraggio, sentendosi però parte di essa. Tornando ai librai: Hemingway non è l’unico caso di precursione dei tempi: lo stesso avverrà nel 1958 con Pasternak per «Il dottor Zivago» e nel 1968 con Singer per «La famiglia Moscat». Seguendo il tracciato della statale, appena fuori Pontremoli, si arriva al convento agostiniano della Ss. Annunziata. Merita una visita, per le opere d’arte che custodisce. Di fronte alla chiesa si prende per il ponte sul Magra e ci si immette nella SP31 con rotta verso Mulazzo.

Mèta della quarta tappa è la «sorgente salata», in località Bergondola. Già dal nome indica che ci troviamo di fronte a qualcosa di insolito. «L’acqua salata» ricorda l’equoreo mondo degli oceani e si fatica a credere che da una cannella nel bosco possa fuoriuscire un rivolo… di mare. E quali pesci possono in uno stagno salato? Dopo aver superato l’abitato di Groppoli, correndo sempre lungo la SP31, prima di oltrepassare il viadotto autostradale, a destra si trova una deviazione. Percorso meno di un chilometro, in salita, nei pressi di un piccolo nucleo di case, si imbocca un sentiero sulla nostra sinistra. Qualche minuto e si arriva ad alcuni ruderi. Scendendo pochi scalini ci troviamo di fronte a stagni e cascatelle e ad una vecchia costruzione in muratura. I marchesi Brignole Sale, nel Settecento, avevano fatto costruire un «casino» – nel senso di piccola casa – per poter sfruttare al meglio le proprietà terapeutiche della sorgente che qui butta in abbondanza. Giovanni Targioni Tozzetti attribuiva a quest’acqua le stesse proprietà lassative di quella di Montecatini e per questo, nel secolo scorso, fu anche imbottigliata. Si racconta che vi soggiornò la contessa Maria Luigia di Parma… purtroppo oggi del viale alberato che conduceva direttamente alla fonte, descritto dalle cronache dell’epoca, non resta che qualche sparuto tiglio. La boscaglia ha inghiottito, ineluttabilmente, tutto. E pensare che qualche anno fa, la «polla», era stata contesa da due comuni, Mulazzo e Villafranca a suon di delibere dei rispettivi sindaci. «Roma quanta fuit ipsa ruina docet».

Traversato il ponte Bailey – ormai piuttosto rovinato – sul fiume Magra, cimelio del precedente alluvione, e la il centro abitato di Villafranca si punta verso Virgoletta, (SP26) antico borgo medievale che è stato, fino all’arrivo di Napoleone, al centro di contese e rivendicazioni nobiliari. Prima dei Malaspina dello «spino fiorito», è passato a quelli dello «spino secco», poi a quelli del «Leone», per finire a quelli imparentati con gli estensi di Modena. Va aggiunto nella lista un cinquantennio di governo dei Fregoso e dei Campofregoso, nel XVI secolo, quando Virgoletta entra nella sfera di influenza dei genovesi, come avamposto tra i Medici di Firenze e gli Sforza di Milano. In paese suonano le campane. Preferiamo, non entrare nella piazza, e scendiamo lungo la strada che costeggia il borgo dalla parte del bosco, passando sotto palazzo Tardiani. Che poi è ancora l’onnipresente tracciato della Francigena. Superato un ponticello che scavalca il Vigesa, siamo davanti alle famose fontane, alle quali vengono attribuite anche qualità curative. E per questo sono mèta quotidiana di persone che vengono ad attingere dai luoghi limitrofi.  I mascheroni di marmo di sinistra buttano un’acqua più leggera e diuretica – che beviamo con vero gusto – mentre a destra si trova la fontana di acqua calcarea e pesante. Alle due fontane è legato un aneddoto: chi beve dalle bocche di marmo non può non legare la sua vita a questo borgo. In effetti, qui trovi brava gente, qui tutto è pulito. E capisci perché alcuni personaggi della cultura, come Manuela Dviri, abbiano scelto di comprare casa da queste parti…

Ora, dopo esserci rifocillati, dobbiamo compiere una lunga traversata collinare per giungere nella valle del Taverone. La salita si alterna a tratti pianeggianti, con alcuni tornanti in discesa: il profilo del paesaggio  è dolce e la vegetazione folta. Dopo qualche chilometro ecco le indicazioni per Castiglione del Terziere. Non saliamo in paese ma il ricordo va a Jacopo Bononi, all’illustre cittadino che fino all’ultimo ha vissuto nel castello da lui stesso restaurato. Qualche anno fa, ebbi l’occasione di trascorrere qualche ora con lui tra le mura della sua abitazione, che conserva oltre 20mila incunaboli e decine di gatti. Si parlò di amenità, ma anche di conti e marchesi, senza dimenticare qualche aneddoto su Dante e sull’opera di pacificazione che riuscì a compiere in Lunigiana, tra non poche difficoltà. Faceva impressione ascoltare quest’umanista del Novecento raccontare della sua terra, lui che era stato apprezzato da Pasolini e di cui Cesare De Michelis, riferendosi alla scrittura, ebbe a dire «è una summa poetica e morale, nella quale si riassume una solida e complessa sapienza di vita». La Lunigiana è così: racchiude tesori e perle preziose, uomini e monumenti, dove meno te lo aspetti.

Qualche pedalata ancora e scorgiamo, su una costa, in località Corvarola, i ruderi di un oratorio, di origine quattrocentesca, che, si narra, fu fondato da San Rocco in persona, di ritorno da Roma e in viaggio per la Francia, intorno al 1315. Purtroppo è quasi interamente coperto da rovi e pruneti, con i suoi colori sbiaditi diventa simbolo muto di una bellezza che il tempo consuma e porta via con sé.

La valle del Taverone si apre lungo il torrente da cui trae il nome ed è spalleggiata dall’imponente massiccio composto dai «Groppi di Camporàghena», mentre sullo sfondo appaiono i profili dell’Appennino. Varano, la località che dobbiamo raggiungere, si trova a sei chilometri da Licciana Nardi, in direzione del Lagastrello, lungo la SP74. Da Monti iniziamo a risalire la valle in direzione del Passo, osservando attorno a noi campi e boschi alternati a graziosi paesi e agli onnipresenti castelli, tratto distintivo dell’architettura storica della Lunigiana, ciascuno diverso per forma, struttura, storia: il castello più impressionante, per la sua forma e la sua posizione, è certamente quello di Bastia, altissimo e imponente, con i suoi imprendibili bastioni cilindrici.

Varano è un piccolo borgo, lungo l’antica via del sale, un tempo è stato un comune autonomo. Apparteneva ai Malaspina di Olivola fin dal 1275. Sulla piazza si affaccia la Pieve di San Nicolò, originariamente romanica e poi più volte rimaneggiata nel cui interno è custodito un prezioso polittico datato 1394. Si racconta che nel 1411, certo capitano Rossi di Tavernelle, di ritorno dalla guerra nelle Fiandre, fece uccidere, nei pressi del cimitero, i marchesi Raffaele ed Alessandro Malaspina di Olivola colpevoli di aver violentato la sua bellissima moglie. Nella piazza del paese si trovano due vasche d’acqua, alimentate da un imponente getto, alle quali ci dissetiamo con calma, facendoci incantare dallo splendore delle case in pietra e dai portali in arenaria.

Per la settima tappa si torna indietro fino a Licciana per imboccare la SP21 che collega la valle del Taverone a quella del Rosaro, appoggiandoci all’antica «Via del Volto Santo», battuta, fin dal Medioevo, da migliaia di pellegrini diretti verso Lucca. Dopo poche curve, lo sguardo si perde sulle Apuane che si stagliano di fronte, possenti e grigie, con le vette del Pizzo d’Uccello, del Pisanino e la parete Nord del Sagro. Siamo a quota 460mt e la provinciale attraversa boschi di cerro, carpini, castagni, vigneti e distese d’olivi. Arriviamo ad Agnino, il «paese dei 18 campanili», tanti se ne possono scorgere nella vallata o, «del sole» se diamo credito all’etimologia indeuropea del nome. Qui l’acqua è proprio sulla strada e non fatichiamo a cercarla in qualche anfratto. Purtroppo il rubinetto è asciutto, e il fiotto si trova lì accanto, fuori dalla tubatura.

Non rimane allora che riprendere il cammino per Fivizzano, dove arriviamo dopo pochi chilometri. Nella piazza principale, domina la fontana di Cosimo III De’ Medici. Un bell’esempio di architettura rinascimentale. La paura del recente terremoto sembra passata. C’è la voglia di andare avanti: lo leggi nel volto delle persone che, oggi, sono in attesa della «Disfida degli arcieri»: una competizione con l’arco che contrappone i diversi quartieri della cittadina, secondo una tradizione che risale alla fine del Quattrocento.

Da Fivizzano facciamo rotta, con la SS 63 e poi la SP 10, verso Equi Terme, per un ultimo sorso ad una altra sorgente sulfurea, conosciuta già ai tempi dei romani e che ha reso celebre questo piccolo borgo, arroccato ai piedi della Nattapiana, sotto le guglie del Pizzo d’Uccello. Sono soltanto 15 chilometri che si percorrono per metà in discesa. Le «terme» si trovano in un contesto paesaggistico caratterizzato da profonde e strette valli che degradano dalle Apuane, con spettacolari fenomeni d’erosione: il «Solco di Equi», un piccolo canyon formato dal Lucido, e le grotte in parte visitabili: la Buca e la Tecchia, abitata sin dal periodo preistorico dall’uomo di Neanderthal. Qui il terremoto ha colpito duramente. Diversi edifici sono inagibili. Il turismo è ridotto al lumicino. L’acqua è amara ma benefica. Ne beviamo il giusto.

Sta per tramontare il sole; torniamo indietro per visitare il sito dell’«acqua nera» e dell’«acqua salata», due sorgenti poste l’una di fronte all’altra, sulla riva destra e sinistra del torrente Lucido ai piedi del paese di Monzone. L’acqua nera scaturisce da una nicchia scavata nei calcarei cavernosi e prima di gettarsi nell’alveo lascia una striscia limacciosa da cui, si presume, derivi il nome insolito. È ricca di sostanze alcaline. L’acqua salata è invece il frutto dell’azione dilavante sul salgemma e dell’acqua fossile di origine marina. Bere a queste sorgenti, ancorché il sapore non sia invitante, è come scendere nelle viscere della terra e cogliere qualche goccia del suo passato geologico.

L’ultima tappa è ad Aulla che raggiungiamo facilmente riprendendo la SP10 a la statale 63 direzione Soliera – Serricciolo. Purtroppo il ponte sul Magra, crollato dopo l’ultima alluvione, non è stato ancora ripristinato e così dobbiamo compiere una lunga e faticosa deviazione verso Olivola e Quercia. È un saliscendi tra colline coltivate e boschi di quercia. Ad Aulla arriviamo provati: sono 127 i chilometri percorsi e lo sforzo si fa sentire. Fuori della cittadina, dopo il vecchio ponte sull’Aulella, incrociamo la fontana che porta a valle le acque della sorgente detta «La Camilla». È freschissima. Le persone del posto, che accorrono a riempire bottiglie ogni giorno raccontano di benefici ottenuti nella calcolosi, nei disturbi della digestione e dell’apparato urogenitale, nella cura della gotta e delle malattie del fegato.

L’acqua della sorgente «Camilla» fu condotta ad Aulla verso la fine dell’’800, dalle Ferrovie dello Stato, e utilizzata per i propri cantieri della costruenda ferrovia Parla – La Spezia. Una targa in marmo, proprio sopra il rubinetto centrale, lo ricorda a chi si avvicina per bere. Con questo sapore dolce e naturale, scriviamo la parola fine al nostro viaggio verde-azzurro. Dal passo della Cisa, dal divieto di «non lordare la natura» siamo scesi fino alle porte della Lunigiana, pedalando nel presente e nel passato, seguendo itinerari antichi e recenti, cercando l’acqua e la storia che ad essa è legata, come un lungo racconto che inizia da un sorgente, si allarga in un fiume e si confonde nel mare.