Cultura & Società

Sindone: il mistero e la storia

di Franco Cardini

La Sindone di Torino appartiene, per la Chiesa, al gruppo delle reliquie cristiche e delle reliquie della Passione. È quindi forse opportuno, anzitutto, richiamare che cosa con precisione sia una reliquia.

La reliquia è nella tradizione ecclesiale cattolica un resto corporeo di santi o di sante, di beati o beate, oppure di qualche oggetto santificato dal contatto con loro. Casi molto particolari sono le reliquie della Beata Vergine Maria e, soprattutto, del Cristo: specialissime poi fra tutte sia le reliquie del legno della Santa Croce, sia quelle del Santo Sangue del Signore, che possono aver avuto origine dal Suo Sangue versato durante la Passione o da quel particolare tipo di miracolo che è il «miracolo eucaristico».

Sul piano storico, la reliquia cristica è prova e pegno (in latino, appunto, pignus) della comune salvezza, connessa con la realtà dell’Incarnazione; a somiglianza di essa, le reliquie dei martiri sono pegno della comunione dei santi, che garantisce l’unità della Chiesa come Corpo Mistico sulla quale si fonda la certezza che i santi continuano a proteggere, come mediatori, la comunità dei credenti: ciò giustifica la fede le potere miracolo che le reliquie possono avere. Anche gli antichi greci e romani conoscevano il culto delle reliquie degli eroi, alle quali però non attribuivano alcun valore taumaturgico. Comunque, la reliquia – specie quelle costituite da parte di un corpo fisico – è una rottura rivoluzionaria sia con la tradizione ellenistico-romana sia con quella ebraica, che per motivi diversi tra loro prescrivevano comunque entrambe la rigorosa separazione tra i morti e i vivi e avrebbero ritenuto illecite e contaminanti sia la separazione d’una parte d’un cadavere dal resto del corpo di un defunto sia la sua conservazione. Anche nella Chiesa primitiva esistevano del resto resistenze a tale pratica. Fu solo a partire dall’VIII che si diffuse la pratica della frammentazione dei corpi dei santi e del loro trasferimento dal primitivo luogo di sepoltura, la translatio; inoltre si preferiva ricorrere di solito, per distribuirle ai fedeli, alle cosiddette «reliquie per contatto», cioè a oggetti (di solito brandia, frammenti di tessuto) che si depositavano qualche istante sulla tomba del santo come a permetter loro di «assorbirne» il potere taumaturgico.

Lo sconsiderato traffico delle reliquie, e quindi la circolazione di reliquie false, che si produssero nella Cristianità occidentale specie tra VIII e XI secolo e che erano collegati a fenomeni quali il pellegrinaggio, obbligò la Chiesa a correre ai ripari: s’introdusse l’obbligo delle authenticae, documenti – talora ridotti a semplici etichette – che avrebbero dovuto assicurare identità e provenienza di ciascuna reliquia, si avviarono verifiche di esse (recognitiones) e nel 1215 il Concilio Lateranense IV proibì l’ostensione delle reliquie fuori dalle loro teche al fine di ridurre i fenomeni della falsificazione, della sostituzione e del furto. Molti venerabili uomini di Chiesa attaccarono autorevolmente sia gli abusi cultuali, sia le superstizioni legate alle reliquie: così Claudio di Torino nel IX secolo, così soprattutto Guiberto, abate benedettino del monastero di Nogent fra XI e XII secolo, il cui trattato De pignoribus sanctorum – una requisitoria implacabile contro le falsificazioni e le superstizioni – fu poi scopiazzato nei secoli successivi da tutti i detrattori anticattolici del culto delle reliquie (da Giovanni Calvino al Voltaire), i quali però si guardarono bene dal citarlo.

Il culto delle reliquie fu comunque, insieme con la vendita venale delle indulgenze, uno degli «scandali» contro i quali si scagliarono tra medioevo ed età moderna tutti i fautori delle riforme ecclesiali: fino alla Riforma protestante vera e propria e alla Controriforma, che ribadì la legittimità del culto ma accolse le giuste critiche ai suoi abusi e avviò una vera e propria caccia alle false reliquie che ancora fossero venerate nelle chiese. Naturalmente, ciò non toglie che molti falsi sfuggissero alle indagini, anche alle più accurate.

Oggi, la Chiesa può usufruire dei medesimi strumenti messi a disposizione della ricerca storica per correttamente datare un oggetto: le indagini mediante l’uso del C14, l’isotopo radioattivo del carbonio, del DNA e così via. Gli studi relativi alla Santa Sindone di Torino, ad esempio, sia pur caratterizzati da una problematica particolarmente complessa, hanno dimostrato quanto grandi servigi la scienza possa rendere al culto. Va da sé che comunque da una parte la fede nelle reliquie non fa parte di alcun dogma, dall’altra che in qualche caso di sia pur dubbia autenticità la Chiesa può autorizzare il mantenimento – magari provvisorio, in attesa di raggiunte certezze – di un culto locale per rispetto alla tradizione e alla devozione dei fedeli.

Ma, quanto alla Sindone, è necessario all’interno del quadro generale così delineato proporre un discorso più specifico.

La fenomenologia delle religioni che si sono avvicendate nella storia dell’umanità è un paradosso. Se definiamo la religione come il complesso di credenze, atteggiamenti e istituzioni scaturito dal rapporto tra l’essere umano e quello che Rudolf Otto ha definito il «Sacro» in quanto ganz Anderes, «Altro-da-Sé», si finisce col doversi chiedere se è giusto definire il cristianesimo una religione; e se, al contrario, tale definizione va mantenuta, sorge spontanea la domanda se per caso non dovremmo trovare un sostantivo per qualificare il fenomeno formalmente simile che si riscontra in altre aree concettuali.

È proprio il volto di Dio – al pari della morte di Dio – a fornirci la misura esatta della profondità di questo paradosso. Le religioni del mondo sono in effetti distinte in due grandi gruppi: da una parte la stragrande maggioranza, caratterizzata da una struttura mitica e da una concezione immanentistica della divinità; all’altra le tre fedi sorte dal ceppo del patriarca Abramo, caratterizzate invece da una struttura storica e la una concezione trascendente di Dio.

Nelle altre religioni, gli dèi vivono in un tempo qualitativamente differente dal nostro: esso è il tempo del mito, l’aliud tempus. Non ha senso chiedersi quando Zeus fecondò Latona, né quando Odhinn e Loki mischiarono il loro sangue. A loro volta, gli déi sono personificazioni delle forze cosmiche o naturali. Nelle religioni abramitiche, l’unico Dio – puro spirito – irrompe nella storia, dialoga direttamente con l’uomo inserito in specifici contesti. Le altre religioni possono dare infiniti volti ai loro dèi, ma chi li conferisce loro sa già che essi non hanno un valore se non simbolico.

Ebrei e musulmani, d’altronde, possono parlare del volto – o delle mani, o di qualunque altro membro – di Dio, ma sanno bene che il loro linguaggio è puramente figurato. Dio è puro spirito, non ha corpo e quindi non ha volto.

La Sindone pone il problema dell’unicità del cristianesimo. Dio ha un volto, ed esso è un volto d’uomo. La prestigiosa reliquia di Torino può benissimo essere un falso – e ciò spiegherebbe molte cose; ma impedirebbe la spiegazione di tante altre –: ma se per avventura fosse autentica, noi ci troveremmo dinanzi alla traccia lasciata da Colui che ha scelto le fattezze delle Sue creature, e proprio quelle, per dar un volto umano a se stesso.

L’esemplarità della Sindone – e ne sto ora parlando, attenzione, dall’esclusivo punto di vista storico – sta tutta nei metodi di ricerca di cui essa è stata fatta oggetto negli ultimi decenni: e che davvero mostrano come il nostro passato stia nel nostro futuro, cioè nella capacità di far parlare ai nostri  documenti un linguaggio nuovo.

Si pensava fino ad alcuni anni or sono che il lenzuolo torinese non avesse più segreti. Poi sono arrivate nuove tecniche fotografiche; quindi i raggi X; poi ancora le tecniche legate alla ricerca nucleare e connesse con l’isotopo radioattivo del carbonio, ottimo anche se non sempre sicuro ausilio per le questioni legate alla datazione dei reperti storici organici, è giunta quindi la palinologia, vale a dire lo studio dei pollini delle essenze vegetali depositate nel tessuto; e infine ecco le ricerche sul DNA, che hanno consentito di considerare con occhi del tutto nuovi le «macchie» presenti sul tessuto, la natura delle quali permane tuttavia ancora misteriosa (non si tratta né di pigmentazione, né di bruciature, com’è stato invece più volte proposto o ipotizzato).

Con un paradosso in apparenza irriverente, oserei a questo punto dire che se la Sindone è autentica, se davvero è il lenzuolo funebre che ha coperto Nostro Signore, la realtà supera ogni commento e si può solo venerare commossi; ma sotto il profilo storico se si tratta di una falsificazione il suo caso è di gran lunga più interessante. In effetti l’aspetto del tessuto e soprattutto i pollini in esso riscontrato, che rinviano all’area mediterraneo-orientale e a un paio di millenni fa, danno da pensare che gli eventuali falsificatori – e si sono naturalmente chiamati in causa i soliti templari… – avrebbero dovuto essere degli autentici geni e possedere (fra Due-Trecento, età della supposta falsificazione) tecniche assolutamente avveniristiche. Il che, fuor di paradossi e di polemiche, appare impossibile. È questo un argomento che induce a propendere senz’altro a favore della tesi dell’autenticità? Certamente no: e, del resto, l’autenticità della Sindone non è in alcun modo questione di fede.

Restiamo quindi nel campo della ricerca storica: quel che si può appurare alla luce di essa, è la plausibilità che il reperto possa provenire dalla Palestina del I secolo dopo Cristo. Non potremo mai sapere di più, e l’appurare ciò non significherà ancora che la Sindone sia autentica. Ma sarebbe molto. Naturalmente, le ricerche scientifiche – legittime e moralmente anche doverose – non possono astrarre dal fatto che oggetto di esse è qualcosa che per secoli è stato ritenuto sacro, che tale è ancora, ch’è oggetto di venerazione e di devozione. Non si manovra una reliquia, vera o supposta che sia, con la stessa disinvoltura con la quale si manipolerebbe un sia pur prezioso documento d’archivio o di museo.

Eppure, la Sindone non è un caso unico. Forse è il caso più noto e più sconvolgente: ma il mondo è pieno di reliquie e d’immagini che danno luogo a una quantità di problemi, e che solo un certo semplicismo connesso con quello che si potrebbe definire il «fondamentalismo laicista» ha consentito di emarginare.

Perché è bene sottolineare che il fanatismo e l’intolleranza non sono esclusivi del mondo della fede, dove purtroppo senza dubbio alcuno spesso allignano. Esistono anche un fanatismo e un’intolleranza sedicenti razionali (cioè razionalisti: ma il razionalismo non è espressione di razionalità, è ideologia), che non sopportano di sottoporre se stessi a critica o a revisione di sorta: e che gridano alla scienza violata, o all’attentato al progresso, se e quando le loro certezze vengono messe in forse.

In Europa vi sono almeno altre due reliquie legate al Cristo, le «sante tuniche» di Treviri e di Argenteuil; esiste altresì qualcosa di analogo alla Sindone vera e propria: il «Santo Sudario» di Oviedo. Sono oggetti enigmatici, che troppo precipitosamente si sono proclamati dei «falsi devozionali» e che invece occorre studiare. Per tacere dei molti reperti connessi con la Passione o con i miracoli eucaristici. Sulla reliquia di Lanciano, sulle «Sacre Spine» di Ariano Irpino, sul «Santo Sangue» di Bruges, di Liegi, di Mantova, di Orvieto, non si è ancora detto tutto quanto andrebbe detto, non si è ancora studiato e analizzato abbastanza. C’è tutta una scienza sistematica dello studio delle reliquie da avviare a livello scientifico, coordinando gli sforzi dei molti studiosi che da tempo vi si dedicano. E per tacere inoltre dei «Santi Volti» affidati ai due celebri crocifissi di Borgo San Sepolcro e di Lucca, e alle immagini iconiche come il Mandylion o «Santo Volto» di Genova, collegato con la leggenda del re della città armena di Edessa (oggi Urfa in Turchia) che sarebbe stato guarito da un panno speditogli da Gesù e sul quale era miracolosamente impressa la Sua effigie. Il Mandylion era custodito in Edessa fino al 944, quando fu trasportato a Costantinopoli per salvarlo dalle incursioni saracene; fu quindi trafugato al tempo del saccheggio di Costantinopoli perpetrato nel 1204 dai crociati e, secondo la tradizione genovese, poi giunto a Genova dove ancor oggi si può venerare nella chiesa di San Bartolomeo degli Armeni. E non va dimenticato neppure il «Santo Volto» di Manoppello, un’immagine dipinta su lino finissimo e di epoca imprecisata: secondo alcuni sarebbe in realtà da identificarsi con l’originale «Veronica» romana, mentre per altri sarebbe un autoritratto addirittura del Dürer, cha amava autoritrarsi con tratti cristici. La Sindone e altri ritratti di Gesù non eseguiti da artisti, almeno secondo la tradizione, rientrano nel genere dei cosiddetti acheiropoietoi, cioè, letteralmente, «ritratti non eseguiti da mano d’uomo».

Abbiamo, ancora, la straordinaria storia della Veronica, cioè del panno con il quale, secondo una tradizione di cui non abbiamo tracce prima del V secolo, una donna (che nella tradizione avrebbe poi assunto come nome proprio quello della sua reliquia) avrebbe asciugato il volto sudato e insanguinato del Signore durante l’ascesa al Calvario. Anche questa reliquia fu identificata con quella edessana spostata nel 944, ma altri la dicono corrispondente alla «Veronica», la «Vera Icona» per eccellenza, quella che durante il medioevo veniva venerata (a partire dal XII secolo, per quanto la si dicesse à dall’VIII) in San Pietro a Roma, e che divenne la più celebre reliquia della cristianità per scomparire poi durante il saccheggio di essa da parte dei lanzichenecchi nel 1527.

Sappiamo che la Sindone è a sua volta secondo alcuni collegabile al Mandylion edessano, in quanto esso mostrava piegato soltanto il volto del Signore, ma era in realtà un sudario che ne conservava l’intera traccia: come tale, era mostrato a Costantinopoli. Trafugato, ricomparve a metà Trecento nella collegiata di Liray in Francia e in seguito fu ceduto nel 1452 a Ludovico duca di Savoia dai suoi proprietari, la nobile famiglia di Charny, un membro del quale era stato alto dignitario dell’Ordine templare bruciato sul rogo insieme con il Maestro dell’Ordine, Jacques de Molay, nel 1314. Da qui la tesi relativa alla detenzione della sindone dal 1204 in poi da parte della famiglia Charny, che l’avrebbe avuta dopo il suo trafugamento del 1204 ad opera dei crociati e l’avrebbe trasmessa a quel Goffredo di Charny, dignitario del Tempio, il quale l’avrebbe proposta alla venerazione di confratelli dell’Ordine (e questo avrebbe potuto essere il famoso Baphomet, l’idolo demoniaco che i Templari furono accusati durante il processo contro di loro di adorare, mentre si trattava di quella reliquia): da quando la Sindone è possesso dei Savoia, che l’hanno custodita a Chambéry prima e a Torino poi, naturalmente sappiamo tutto.

Ammettendo quindi che la Sindone sia quella stessa reliquia che a Costantinopoli è stata venerata tra 944 e 1204 come Mandylion, che essa sia in effetti il sudario funebre del Signore, misteriosamente giunto a Edessa e a lungo celato dietro la leggenda apocrifa del re Agbar, chi lo avrebbe custodito dal momento in cui qualcuno (chi?) lo sottrasse dal sepolcro e quando e come sarebbe giunto a Edessa, città della prima comunità al mondo – quella armena – che accolse il cristianesimo? Alla zona d’ombra tra I e X secolo si aggiunge quella fra XIII e XIV: chi se ne appropriò a Costantinopoli, come giunse alla famiglia di Charny e ai Templari, come tornò poi alla famiglia che ne risultava proprietaria quando la cedette al duca di Savoia?

Sono problemi storici complessi e ancora aperti, che si sommano a quelli propriamente archeologici e fisico-chimici proposti dalla reliquia. Essa è stata più volte sottoposta a varie analisi scientifiche, i risultati delle quali sono stati però contraddittori e comunque non definitivi. Riusciremo d’altronde a vincere le diffidenze – peraltro comprensibili – di una parte della Chiesa, che teme non senza ragione che il mistero connesso col Sacro venga compromesso e ridotto a oggetto da laboratorio? E le molto meno comprensibili avversioni di parte del mondo laicista, anche di quello di quanti come scienziati dovrebbero anzitutto essere interessati alla verità obiettiva, che agitando lo spauracchio della «superstizione» sembra in realtà preoccupato di dover ammettere cose che scuoterebbero la dura ma fragile corazza d’un «materialismo» che si sente minacciato e che si attacca al dogma dell’autoreferenzializzazione scientifica per non essere costretto al dialogo, alla dialettica, al confronto?