Dossier

La settimana sociale a Pistoia e Pisa

Mille delegati, 65 vescovi, 160 diocesi rappresentate, 32 relatori e sei sessioni di lavoro, un comitato scientifico organizzatore di 12 esperti. Questi i numeri della 45/a settimana sociale dei cattolici italiani (a Pistoia e Pisa dal 18 al 21 ottobre), a cento anni esatti dalla nascita di questo appuntamento dei cattolici italiani, il primo dei quali si svolse a Pistoia nel 1907. “Il bene comune oggi, un impegno che viene da lontano” è il titolo scelto. Ecco una sintesi dei lavori, sessione per sessione (Fonte: Sir).

I Sessione: CENTO ANNI DI SETTIMANE SOCIALI (Pistoia 18 ottobre)

II Sessione: BENE COMUNE NELL’ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE (Pisa 19 ottobre)

III Sessione: STATO, MERCATO E TERZO SETTORE (Pisa 19 ottobre)

IV Sessione: LE PROSPETTIVE DELLA BIOPOLITICA (Pisa 20 ottobre)

V Sessione: EDUCARE E FORMARE (Pisa 20 ottobre)

VI Sessione: UN FUTURO PER IL BENE COMUNE? (Pisa 21 ottobre)

I Sessione: Pistoia – Giovedì 18 ottobre 2007

DALLA TORRE, “IL FUTURO DEL BENE COMUNE È FATTO DI PROPOSTE CONCRETE” “Siamo qui non solo per commemorare ma soprattutto per riflettere su un principio centrale della dottrina sociale della Chiesa, quello del bene comune”: lo ha detto Giuseppe Dalla Torre, rettore della Lumsa e vicepresidente del Comitato Setti mane Sociali, aprendo nella cattedrale di Pistoia la prima sessione dei lavori della 45ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani. Secondo Dalla Torre, “mentre guardiamo ai luminosi esempi di quanti, a partire da Toniolo, dettero vita alle Settimane Sociali, non dobbiamo attardarci sul passato. Dobbiamo invece rivolgere gli occhi al futuro che è alle porte. Il futuro del bene comune è fatto di proposte concrete nei singoli ambiti della modernità che avanza”. Nelle parole di saluto ai convegnisti, il vescovo di Pistoia mons. Mansueto Bianchi ha sottolineato che “la Toscana oggi appare una terra segnata dai sintomi di un secolarismo avanzato, mentre si registra come una eclissi della proposta cattolica”. Il vescovo ha sottolineato che “occorre invece che la laicità consista nell’ascolto attento e rispettoso degli altri”. MONS. MIGLIO, “CHIESA SEMPRE PIÙ CORRESPONSABILE DEL BENE COMUNE” “Occuparsi di bene comune non significa limitarsi ad una dimensione orizzontale, perché l’amore per il nostro Paese e l’impegno a servizio della città terrena ci vengono dalla Pasqua del Signore” che “ci rende portatori di speranza vera anche nell’affrontare i problemi complessi della vita sociale”. Lo ha detto mons. Arrigo Miglio, vescovo di Ivrea e presidente del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali, nel saluto di apertura. Riferendosi ancora al tema dell’incontro, il presule ha spiegato: “È la carità di Cristo che ci spinge al servizio del bene comune, la carità che viene da Dio, la carità che è Dio stesso”. Oggi, ha proseguito mons. Miglio rivolgendosi ai presenti, tra i quali il neo cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, “in modo particolare la Chiesa italiana rende grazie al Signore per un secolo ricco di carità e di servizio donati al Paese; rende grazie ad un anno esatto dal convegno di Verona, nel cui spirito vogliamo vivere questa Settimana Sociale”. “Preghiamo” ha aggiunto, affinché “tutta la Chiesa che vive in Italia si senta sempre più corresponsabile del bene comune di tutto il Paese”. MONS. BAGNASCO, “STARE CON FEDELTÀ E CREATIVITÀ DINANZI ALLE NUOVE SFIDE” Un’occasione per “stare con fedeltà e creatività dinanzi alle nuove sfide che si presentano”. Così mons. Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei, ha definito la 45ª Settimana sociale, intervenendo nella prima sessione dei lavori a Pistoia. Citando “il percorso, fecondo ma non sempre agevole, che tante generazioni di credenti hanno compiuto per il bene del paese”, e il “cammino di questa nostra Italia e della stessa nostra Chiesa attraverso varie epoche e stagioni”, Bagnasco ha ricordato le “tante figure di donne e di uomini, di laici, di religiosi, di sacerdoti, di vescovi, a partire dai vescovi di Roma, i Papi, che si sono succeduti intrecciando sempre un rapporto speciale col nostro Paese”. Tutti “protagonisti”, questi, di “un dialogo incessante con le necessità, le attese, le speranze, le sofferenze, le gioie del popolo italiano”. “I cento anni da cui proveniamo – ha proseguito il presidente della Cei – hanno visto il fiorire di innumerevoli opere in campo sociale, economico, culturale, politico sgorgate dalla intelligente creatività della fede e della carità cristiana”, segno di un “tessuto vivo” e di “un riferimento dinamico e fecondo per tutti, ieri e oggi”. Quella emersa un anno fa dal Convegno di Verona è dunque “una Chiesa di popolo protesa alla testimonianza” e per la quale la prima sfida da raccogliere è quella delle “nuove generazioni”.

“Continuare a tessere una trama di amore e responsabilità civile” – ha proseguito mons. Bagnasco – vuol dire, per i cattolici, proseguire il “circolo virtuoso” che dal Concilio ad oggi “parte dalla persona ed arriva all’ordine sociale”. Il bene comune può essere inteso come la dimensione sociale e comunitaria del bene morale”. In questa “visione realistica” che ”falsifica gli schemi ideologici”, la società “non può non essere connessa alla persona”: in particolare, “è essenziale al bene comune del nostro Paese un nuovo patto tra le generazioni”. Per la Cei, inoltre, è urgente “una forte proposta educativa”, fatta “di proposte alte, di impegno concreto e continuo, cordialmente aperta al bene di tutti e di ciascuno a prezzo di interessi individuali o particolari, a prezzo del proprio personale sacrificio”. Di qui l’appello “Dobbiamo dirlo a voce alta, dirlo in primo luogo a noi stessi: non solo non si può attuare il bene comune, ma neppure concepirlo né tanto meno ragionarci e discuterne, senza ricuperare le virtù cardinali della fortezza, della giustizia, della prudenza e della temperanza con le attitudini interiori che ne conseguono. Lontani da questo impianto virtuoso la teoresi diventa difficile, insidiosa, facilmente ideologica”.

L’“intangibilità della persona e della vita umana, dal concepimento fino al naturale tramonto”; la ”cellula fondante e inarrivabile di ogni società che è la famiglia, fondata sul matrimonio indissolubile di un uomo e di una donna, e aperta a quei figli di cui l’Italia e l’Europa che invecchiano hanno così tanto bisogno”; il “valore incommensurabile della libertà che – lungi dall’essere mero arbitrio – è impegnativa adesione al bene e alla verità”; il “codice morale che si radica nell’essere profondo e universale dell’uomo, e che il credente vede esplicitato e perfezionato in Gesù”. Per i cattolici sono questi, ha detto mons. Bagnasco, i “valori non negoziabili” che si sono dimostrati “i capisaldi della storia e della tradizione del nostro popolo, insieme alla garanzia” per il futuro. “Continueremo a mettere al centro la questione antropologica”, ha assicurato il presidente della Cei, “grazie all’apporto insostituibile del Progetto culturale” così da offrire a tutti un contributo di proposta, di chiarezza, di serenità” e da “contribuire allo sviluppo di un ethos condiviso”, come promesso un anno fa a Verona. Tra i “volti della questione sociale”, Bagnasco ha ricordato le “pressanti urgenze legate ai problemi del lavoro e della casa, specchio di un disagio economico che tocca seriamente una larga fascia di persone e di famiglie”.

Per il presidente della Cei bisogna “Allargare gli spazi della razionalità”, come esorta ripetutamente a fare il Papa, significa “servire il bene comune” per “far sì che non si diffondano , né si rafforzino ideologie che possono oscurare o confondere le coscienze e veicolare una illusoria visione della verità e del bene”. “E tutto ciò – ha puntualizzato – a partire dalla ragione e dal diritto naturale, ossia da quanto è conforme alla natura di ogni essere umano. È questo, prima di tutto, un terreno di incontro e non di scontro fra i cristiani e gli appartenenti ad altre matrici ideali”. Per il presidente Cei, ”è essenziale una corrispondenza sostanziale tra fede, verità e ragione, nonché al dialogo e al confronto in ordine al futuro sviluppo di civiltà, così come alla nostra identità di italiani e di europei”. ”Solo allargando questi orizzonti la persona si raggiunge e trova se stessa in una totalità senza riduzioni o peggio amputazioni”, ha ammonito Bagnasco. In tale contesto, è il suo appello, ”la dimensione religiosa–costituisce un fattore imprescindibile del bene comune, è principio e fondamento di molti altri beni e diritti. Per questo la società non perseguirebbe il proprio fine senza l’esplicito riconoscimento e la concreta promozione di questa sorgiva e fondativa istanza”.

“Nel diretto impegno politico, i laici sono chiamati a spendersi in prima persona attraverso l’esercizio delle loro competenze e contestualmente in ascolto del Magistero della Chiesa”. Mons. Bagnasco ha dedicato la parte finale del suo intervento alla Settimana sociale al rapporto tra cattolici e politica. “Non è questo il tempo di disertare l’impegno, ma semmai di prepararlo e di orientarlo”, ha affermato, e subito dopo ha aggiunto: “A tal fine la parola dei Pastori non potrà essere assente. Sarà una parola chiara, ferma e rispettosa, protesa anzitutto a ribadire i principi non negoziabili. Chi sta vicino alla gente – al contrario di quanti si muovono da posizioni preconcette – percepisce che esiste ed è forte l’attesa di una loro parola, dato che il delicato momento vissuto dal Paese rende ancora più forte l’esigenza di punti di riferimento autorevoli”. Il presidente della Cei ha concluso rinnovando il suo appello di un mese fa, aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei: “l’Italia merita un amore più grande! L’incanto della sua natura, la ricchezza della sua storia, la fecondità delle sue radici cristiane, la fioritura delle sue tradizioni, quella diffusa sensibilità che è nell’animo della sua gente insieme ad una intelligenza creativa, meritano un maggior apprezzamento da parte di tutti e un rinnovato senso di appartenenza e di amore al Paese. Meritano una responsabilità più grande!”.

RICCARDI: LA SETTIMANA ESPRIME IL NO A UNA CHIESA SOLO CULTUALE “Le Settimane affermano che la Chiesa ha da dire sul terreno della società, perché è nel sociale. Nell’età liberale, esprimono un rifiuto del posto assegnato dai regimi liberali alla Chiesa, cioè del solo culto”: è uno dei passaggi iniziali della relazione di apertura della 45° Settimana Sociale, affidata allo storico Andrea Riccardi sul tema “Cento anni di settimane sociali” (testo integrale). Si tratta – nota lo storico – del “secolo della nazione, il primo dello Stato unitario. Fino all’Ottocento, il grande e solo fatto unificante della penisola fu il cattolicesimo”, anche se “l’Italia non nasce nel grembo della Chiesa di Roma e progressivamente non le appartiene più unanime”. L’epoca liberale costituisce per Riccardi un periodo difficile: “Lo si vede con le leggi ecclesiastiche, – ricorda – che sopprimono monasteri, vita religiosa, opere caritative, tutto lo spessore sociale, lasciando solo le parrocchie e le diocesi, sostenute dallo Stato”. Ma le “Settimane” rappresentano una rottura rispetto a questo ruolo, in quanto “esprimono il rifiuto di una Chiesa solo cultuale, come il cappellano della società civile. La Chiesa respinge il posto di servizio civile religioso … rivendica il libero radicamento sociale e non rinuncia allo spessore sociale della sua vita e azione”.

“Toniolo lottò per condensare le intelligenze cattoliche sugli studi sociali, perché bisognava ripartire dalle idee per orientare la storia nazionale”: con queste parole, Riccardi delinea la figura e la temperie morale e culturale dell’economista e Servo di Dio, Giuseppe Toniolo (è in corso la causa di beatificazione), che cento anni fa dette vita, proprio a Pistoia, alla prima “Settimana Sociale”. “Convinto con Marx che il capitalismo moderno portasse allo sfruttamento del proletariato, Toniolo invece riteneva, contro Marx, che le idee e l’etica non fossero sovrastrutture, ma muovessero la storia come vere strutture portanti”, prosegue Riccardi, descrivendo così l’ispirazione all’azione del Toniolo: “Non si tratta solo della difesa degli interessi cattolici o del papa, ma della convinzione di essere portatori di una visione di bene generale. L’opposizione si fa proposta nella storia sociale. Il tempo dell’esordio è il confronto-scontro con l’altra Italia, laica, anticlericale e socialista, di cui si vede un saggio a Pistoia”. Il relatore pone poi la questione: “Che chiedono i cattolici allo Stato? La laicità non sia laicismo, i cattolici siano rappresentati nei corpi consultivi, le congregazioni religiose libere, che la Chiesa possieda liberamente i suoi beni, l’insegnamento libero, il matrimonio indissolubile”.

“I cattolici erano stati all’opposizione di Stato e borghesia liberale, rifiutando di essere cappellani del Regno. Che spazio avranno in un regime dalla presa sempre più totale? Cercano percorsi alternativi: … Gemelli lavora attraverso l’Università Cattolica”: in questi termini, lo storico Andrea Riccardi sintetizza l’azione dei cattolici durante il fascismo, quando “Mussolini è più realista verso il papato e la Chiesa di buona parte dei dirigenti liberali; ma non rinuncia a imporre un’impronta totale al paese”. Il fascismo – nota lo storico – “vuole occupare la società, educare i giovani, mobilitare le masse, creare un uomo nuovo. Lo si vede dopo le leggi razziali e con il culto della guerra”. E proprio con la fine del secondo conflitto mondiale si profilano grandi cambiamenti per il Paese: “Tramonta la monarchia sabauda; il papa acquista un ruolo di guida spirituale nella vita nazionale che, nonostante polemiche, gli resta per decenni”. I cattolici nel sociale sono ora davanti a una questione grave: “Come ricostruire un paese distrutto? Il partito cattolico, voluto da De Gasperi e da Montini, nasce –questa volta sì!- come partito della Chiesa; – afferma Riccardi – valorizza le energie preparatesi negli anni Trenta: è espressione di un protagonismo di cattolici, inedito nella storia unitaria”.

Venendo ai decenni più recenti, coi cattolici per la prima volta impegnati in politica e “al potere” con la DC, le Settimane costituiscono “un po’ gli stati generali del pensiero politico-sociale, pulsano del senso di una grande impresa”, nota Riccardi, in quanto “il cattolicesimo, dal secondo dopoguerra, ha fatto storia sociale e politica nel nostro paese da protagonista”. Riccardi afferma che ora, “con il distacco del tempo, c’è il grande lavoro da fare: scriverne la storia che è comprendere l’impatto dei cattolici, al governo con altri, di fronte a varie opposizioni, ma centrali nel sistema”. Una centralità che poi, col logorio del potere, viene progressivamente meno, in quanto “la presenza unitaria si smarrisce in politica e nel sociale”, mentre fa capolino un nuovo soggetto: la CEI che “come protagonista collega l’azione sociale all’evangelizzazione: vuole dare spessore unitario ecclesiale ai cattolici, che in tanti modi esistono nella società italiana”. Gli anni recenti di Papa Giovanni Paolo II – conclude lo storico – sono quelli di un “cristianesimo italiano (che) non è un partito politico, ma una forza sociale, anima di un ‘ethos di popolo” per un “servizio da offrire a tutta l’Europa”.

MONS. SORRENTINO: TONIOLO STRATEGA DI UNA CULTURA SOCIALE DEI CATTOLICI D’ITALIA“È stato uno dei grandi artefici e protagonisti del movimento dei cattolici nel sociale, prima del loro ingresso nella politica. Fu l’apostolo della ‘Rerum novarum’, grandemente stimato da papa Leone XIII”. Ha definito, così, Giuseppe Toniolo, ideatore della prima Settimana sociale, l’arcivescovo Domenico Sorrentino, studioso e postulatore della causa di beatificazione di Toniolo, intervenuto a Pistoia all’apertura della 45ª Settimana Sociale. “S’incaricò di far prendere coscienza ai cattolici italiani della gravità della questione sociale e dell’urgenza di porvi mano – ha aggiunto il presule – superando una sensibilità approssimativa o di tipo semplicemente elemosiniero, andando alle radici della questione, comprendendone le dinamiche e formulando un programma”. Toniolo “si preoccupò di far crescere all’interno del mondo cattolico una visione programmatica e un impegno effettivo che ebbe per lui un preciso slogan nell’espressione ‘Democrazia cristiana’, che allora non era ancora il partito politico. Diventò in questo modo il grande ideatore e stratega di una cultura sociale dei cattolici d’Italia”. Perciò, conclude mons. Sorrentino, “Toniolo dice ancora oggi l’importanza di una fede che sia capace di farsi storia”. PETRACCHI: FURONO UNA SCUOLA DI DEMOCRAZIA“La prima Settimana Sociale lanciò al mondo cattolico, e non solo, un triplice segnale: fu una chiara manifestazione del pensiero sociale cattolico; in secondo luogo richiamò i cattolici all’impegno sociale; terzo, indicò nella questione sociale la strada per la riconquista al cattolicesimo delle masse popolari”. Ad affermarlo Giorgio Petracchi, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università di Udine, intervenuto alla prima giornata della 45a Settimana Sociale, con una relazione su “Il timone e la vela. Prima settimana sociale e impatto sulla diocesi di Pistoia”. Un impatto che, precisa il docente, “fu forte e benefico”, ed ebbe effetti positivi su tutto il Paese. “In pochi anni, dal 1908 al 1913, il cattolicesimo pistoiese aumentò di spessore e d’intensità soprattutto nelle campagne”, dando vita a “un complesso movimento di esperienze e di idee che servì a integrare definitivamente le masse contadine, prima escluse dallo stato sociale, ed elaborò la tipica cultura del popolarismo del primo dopoguerra”. Una “scuola di democrazia – conclude – che sopravvisse al fascismo e permeò in gran parte anche la cultura politica della prima Repubblica”.

II Sessione: Pisa – Venerdì 19 ottobre 2007 (mattina)

MONS. PLOTTI (PISA), “LA CHIESA NON IGNORI QUANTO RICEVE DALLA STORIA DELLO SVILUPPO UMANO”“È importante che la Chiesa non ignori quanto ha ricevuto e riceve dalla storia dello sviluppo umano”: lo ha detto stamane, nel saluto ai partecipanti in apertura della seconda sessione della Settimana Sociale, l’arcivescovo di Pisa mons. Alessandro Plotti. Dopo aver rammendato la lettera di Pio X a Giuseppe Toniolo, per felicitarsi del risultato della prima Settimana Sociale (lettera del 3 ottobre 1907), nonostante le “escandescenze della teppa tollerate in pace dal professore”, mons. Plotti ha ricordato che “il contributo dei cattolici alla promozione del bene comune parte da molto lontano, dal Vangelo”. Ha poi affermato che, in vista del “bene comune”, “la Chiesa e i credenti hanno oggi necessità di capire e interpretare i vari modi di parlare nel nostro tempo e di saper giudicare alla luce della Parola di Dio”. ZAMAGNI: RENDERE PLURALISTICO IL MERCATO“La nostra economica di mercato è troppo poco economia di mercato, perché vi trovano spazio solo imprese di tipo capitalistico”. È la denuncia di Stefano Zamagni, ordinario di economica politica all’Università di Bologna, durante la seconda giornata della Settimana sociale (testo integrale). “Nella prospettiva del bene comune – ha affermato – si deve consentire che tutti possano operare nel mercato, senza essere discriminati, cioè considerati eccezioni alla regola”: di qui la necessità dell’ingresso del mercato “non solo di imprese capitalistiche, ma anche di imprese cooperative, imprese sociali, e di tutte le varie forme di attività economica che trovano ispirazione da moventi di natura ideale”. Altro tipo di “discriminazione” da evitare è quella “in base all’efficienza”, che “non è meno deprecabile di quella operata in nome della razza, del sesso o della religione”, come aveva affermato Giovanni Paolo II il 29 novembre 2004. “Una società che dia spazio solo ai sani, ai perfettamente autonomi e funzionali non è degna dell’uomo”, ha ripetuto Zamagni, secondo cui “non possiamo accettare il paradosso della società contemporanea, che per un verso moltiplica le affermazioni a difesa dei disabili, per un altro fa di tutto per escludere dal processo produttivo coloro che non sono efficienti nel senso denunciato dal Papa”.

“La concezione deliberativa di democrazia è oggi la via che meglio di altre riesce ad affrontare i problemi dello sviluppo e del progresso dei nostri Paesi”, ha detto ancora Stefano Zamagni, secondo il quale è proprio in base a tale concezione che si riesce “a pensare alla politica come attività non solo basata sul compromesso e l’inevitabile tasso di corruzione che sempre lo accompagna, ma anche sui fini della convivenza stessa e dell’essere in comune”. La democrazia deliberativa, ha aggiunto Zamagni citando ad esempio l’esperienza delle giurie civiche, “è anche la via più efficace per contrastare l’invadenza del politico, nel senso di Hobbes, e quindi per rilanciare il ruolo del civile”, e per far sì che “lo spazio pubblico cessi di essere pericolosamente identificato con lo spazio statale”. “Il modello di democrazia rappresentativa – è la tesi di fondo del relatore – non è in grado, nelle attuali condizioni storiche, di generare e difendere quelle istituzioni economiche da cui dipende sia un elevato tasso di innovatività sia l’ampliamento della platea di soggetti che hanno titolo per partecipare al processo produttivo. La democrazia deliberativa, invece, mostra di essere all’altezza della situazione”.

BECCHETTI: OCCORRE SAPER ENTRARE NELLA PRODUZIONE DI VALORE“Il recente boom dell’economia della responsabilità sociale può avere un ruolo chiave nella promozione del bene comune”: lo ha detto l’economista dell’Università di Roma – Tor Vergata, Leonardo Becchetti, citando lo sviluppo considerevole di modalità economiche quali i prodotti equosolidali, la microfinanza, i fondi etici, i bilanci sociali delle imprese, “realtà tutte – ha notato – nelle quali l’ispirazione cattolica conta molto”. Secondo Becchetti, oggi non si può trascurare il fatto che “siamo 6 miliardi di persone e pertanto creare valore economico è una questione ineludibile. In questo senso, oggi noi credenti non possiamo farci confinare nel ghetto della distribuzione, ma dobbiamo saper entrare nel mondo della produzione di valore”. Questa “creatività” deve avvenire nell’ambito della “globalizzazione”, definita da Becchetti un “evento provvidenziale” che apre prospettive inedite. “Il ricco epulone non può più mangiare oggi disinteressandosi di Lazzaro” visto – ha aggiunto – che “siamo sempre più coinvolti dall’arrivo di masse di immigrati dai Paesi poveri che bussano alla nostra porta”. “Uno dei fatti più interessanti della globalizzazione – ha concluso – è il potere di leva e di contagio che nasce tra due mondi un tempo distanti”. VITTADINI: VALORE E ATTUALITÀ DEL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ“Quali strade si propongono per realizzare il bene comune attraverso la globalizzazione? Molti osservatori condividono il giudizio positivo sulle opportunità che la globalizzazione offre al bene comune. La Banca mondiale ha stimato che, se il processo di globalizzazione non si fosse verificato, il numero di poveri sarebbe aumentato fra i 300 e i 650 milioni di individui nel giro di dieci anni, anziché ridursi di 150 milioni nel medesimo arco di tempo”: lo ha detto Giorgio Vittadini, docente di statistica all’Università Milano-Bicocca, nel suo intervento su bene comune nell’era della globalizzazione. “Tuttavia – ha aggiunto – non si può sperare nel fatto che una globalizzazione attuata semplicemente attraverso un laisser faire (l’affidarsi alle “provvidenziali” forze del mercato), taumaturgicamente, risolva tutti i problemi”. “Le ineguaglianze, le povertà, le violenze, il degrado materiale e spirituale, rischiano di aumentare anche nei Paesi che stanno incrementando in modo vertiginoso il prodotto nazionale lordo”. Secondo Vittadini, uno degli strumenti per intervenire sulle disuguaglianze presenti consiste nell’attuare il principio di sussidiarietà che – ha sottolineato – “mostra il suo grande valore e la sua attualità per la costruzione del bene comune”. MONS. SIMONI: COLTIVARE L’AMICIZIA CIVICA E IL DIALOGO APERTO CON TUTTI“Se la politica è caotica, per difetti morali o di regole, diventa semplice applicazione di interessi, se non uno strumento di male comune”. È la denuncia venuta dal vescovo di Prato, mons. Gastone Simoni, intervenuto alla seconda giornata della Settimana Sociale. “Noi cattolici – ha proseguito – dobbiamo aiutarci e aiutare la nostra società a coltivare l’amicizia civica, da diffondere nelle nostre varie militanze civiche e sociali” e da proporre come antidoto “a coloro che coltivano scientificamente l’inimicizia civile”. Quello dei cattolici in vista del bene comune, in altre parole, deve essere “un dialogo a tutto campo con tutti, ma portando dovunque la nostra identità”, che parte “dalla conoscenza e dalla memoria dei principi e dei valori del cattolicesimo sociale” e “va coltivata a livello locale e globale”, fuggendo dal “rischio di singole appartenenze, a spezzoni, alla dottrina sociale della Chiesa”. Altro limite del mondo cattolico, secondo il vescovo, la “non sufficiente capacità di sforzo di raccordo e collegamento tra i vari soggetti”: di qui la necessità di “un maggiore raccordo permanente, partendo dalla consapevolezza che la fraternità ha un’incidenza politica formidabile”. Altrimenti, ha concluso Simoni, “il rischio è tornare a casa, dopo la Settimana Sociale, con le nostre identità parziali che non dialogano tra di loro”. GLI INTERVENTI DI PAX CHRISTI E ORDINARIATO MILITAREOrdinariato militare e Pax Christi hanno preso la parola nel dibattito della seconda giornata. “I militari italiani in missione compiono interventi di speciale valore umanitario, riconducibili alla loro prevalente tradizione cattolica” e “non comuni fra i militari di professione”: lo ha ricordato don Enrico Pirotta, delegato dell’Ordinariato militare in Italia il quale ha aggiunto che questo comportamento “nonostante i giudizi non favorevoli di alcuni protagonisti della coalizione occidentale, ha risparmiato atrocità a gente già disperata” e “merita l’attenzione dell’opinione pubblica cattolica”. Don Fabio Corazzina, coordinatore nazionale di Pax Christi, ha richiamato l’importanza di pronunciarsi, secondo la Populorum progressio, sulla non violenza e sul disarmo. “Le comunità cristiane – ha detto – dovrebbero sostenere economie e politiche di disarmo sui loro territori e promuovere una spiritualità che valorizzi la scelta non violenta”. Infine ha rivolto un invito perché “il nostro denaro non abbia a che fare con le banche armate”.

III Sessione: Pisa – Venerdì 19 ottobre 2007 (pomeriggio)

CARD. MARTINO: L’ECONOMIA NON È IL TUTTO DELLA SOCIETÀ

“L’economia non è il tutto della società perché non è il tutto della persona umana”: lo ha detto il card. Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio Consiglio “giustizia e pace”. Martino ha ricordato che Giovanni Paolo II nella “Laborem Exercens” aveva chiamato economicismo “la tentazione di considerare l’economia la totalità, anziché la parzialità”. “In realtà – ha aggiunto – l’economia è un aspetto della dimensione umana. Ciò implica un rapporto sussidiario tra le diverse parti e l’azione ad essa collegata va finalizzata ad altro da sé, cioè a quanto Toniolo chiamava il bene comune”. Il cardinale ha poi affermato che di fronte a istanze quali “le inaudite possibilità tecniche di manipolazione dell’uomo”, occorre “un impegno culturale ampio, sempre in vista del bene comune”.

DONATI: IL NUOVO WELFARE E I CONTRATTI RELAZIONALIIl welfare attuale “tutela gli interessi economici con i contratti, quelli politici con le forme di rappresentanza, ma non sa come trattare le identità culturali, che richiedono beni relazionali che richiedono un certo tipo di capitale sociale”. Lo ha detto Pierpaolo Donati, ordinario di sociologia all’Università di Bologna, intervenendo alla seconda giornata delle Settimane sociali. “I contratti classici e neo-classici – è la tesi dell’esperto –non sono più adatti per il nuovo welfare, perché occorrono contratti relazionali che hanno come oggetto delle relazioni, per esempio di cura, che non sono né materiali né standardizzabili. Abbiamo bisogno di regole, ma le regole di per sé non sono la soluzione, perché esse dipendono dalle premesse non contrattuali del contratto. Qui viene in gioco la concezione antropologica dei diritti, su cui occorre trovare un consenso non relativistico”. Secondo il relatore, in altre parole, “il nuovo welfare non può essere prodotto dai soli individui privati, né solo da uno Stato sempre più interventista, e neppure da un mix fra le due vie, ma da una adeguata relazione sussidiaria fra gli attori in gioco, che si concretizza in una organizzazione sociale plurale e societaria”.

Oggi “il bene comune non coincide più con lo Stato: non è più un bene totale, un monopolio dello Stato, ma un fenomeno che emerge dalle relazioni”, ha esordito il sociologo, secondo il quale il bene comune relazione é fatto “di attori che si orientano reciprocamente in una relazione da cui dipende il loro bene individuale”. In questa prospettiva, per Donati, “il bene comune non è solo qualcosa che si produce assieme, ma di cui si fruisce assieme: molto più della democrazia di rappresentanza, ma anche qualcosa di più della democrazia rappresentativa”. È per questo, ha spiegato l’esperto, che “il bene comune deve essere costantemente generato e rigenerato attraverso dei processi sociali in cui sia data la centralità alla persona umana, alle sue relazioni di mondo vitale e alle sue formazioni sociali”, in base ad “un principio di reciprocità positiva, e non a quello dell’uguaglianza delle opportunità individuali, che è proprio dell’individualismo”. L’alternativa ai “limiti” e ai “difetti” del modello attuale di Stato sociale italiano, ha concluso Donati, consiste quindi nell’idea di “una società della sussidiarietà solidale”, che non concepisce le politiche sociali “come politiche settoriali e residuali per i poveri e i bisognosi”.

FRUDÀ E MARELLI: FAMIGLIA, GIOVANI E BENI RELAZIONALI“Sin da adesso si potrebbe iniziare a incidere sulle patologie della famiglia, cominciando con provvedimenti quali politiche per l’istruzione, sostegno alla natalità, servizi per la famiglia, trasferimenti pubblici per costituire il capitale familiare specie per le coppie giovani”: lo ha detto alla Settimana Sociale in corso a Pisa Luigi Frudà, ordinario di metodologia e tecniche di monitoraggio dell’utente a “La Sapienza” di Roma. Secondo il relatore, la spesa per le fasce di età giovanile e media è “troppo bassa rispetto a quanto si spende in altri Paesi europei”, questo “mentre abbiamo una enormità di popolazione anziana da gestire e una prospettiva crescente di aumento dell’età media”. Parlando del rapporto con i Paesi più poveri, Sergio Marelli, direttore generale di “Volontari nel mondo-Focsiv”, ha detto che “la globalizzazione deve far superare la supremazia di Stato-nazione a vantaggio di più equi rapporti internazionali”. Secondo Marelli, inoltre, “mentre molti Stati hanno abdicato al compito di garantire la sicurezza delle persone, occorre puntare al miglior prodotto della società civile che sono i beni relazionali”.

IV Sessione: Pisa – Sabato 20 ottobre 2007 (mattino)

RICCI SINDONI: LA VITA CRISTIANA È CONTEMPLAZIONE E AZIONELa sfida per i credenti oggi è quella di vivere “la tensione alla compresenza di contemplazione e azione”: lo ha detto nel primo intervento alla quarta sessione della Settimana Sociale sul tema della “biopolitica”, Paola Ricci Sindoni, docente di filosofia morale all’Università di Messina, che ha parlato sul tema “L’urgenza del bene: le voci della mistica”. Tale “tensione”, ha detto, “significa entrare nelle cose, negli avvenimenti, senza esserne assorbiti, stando cioè presso gli affari del mondo e non dentro, con la certezza che questo vive già dentro il circolo dell’eterno”. Sindoni ha citato numerose figure di mistici, da Meister Eckhart ad Edith Stein, da Armida Barelli ad Adrienne von Speyr, da Dag Hammarskjold a Madre Teresa di Calcutta, richiamando il filo comune che li lega: “È l’opera di Dio che conta, ad essa vanno ricollocate le azioni, i progetti legati alle cose della terra”. La relatrice ha poi sottolineato che la vita mistica non è una “fuga” dal mondo, affermando: “Né si pensi che si respiri qui una spiritualità rarefatta, quanto al contrario la percezione di un aggancio concretissimo alla durezza della vita reale. Non regge più lo stereotipo di una mistica individualizzante, misura privata di un intimistico legame con Dio”. Sindoni ha sottolineato che “l’amore – impronta certa dell’Invisibile – impone l’esteriorità del suo darsi”.

Tra le “voci della mistica”, Paola Ricci Sindoni ha citato con ampiezza quella di Carlo Carretto, ricordando “l’adunanza oceanica, da lui organizzata a Roma nel settembre 1948 (all’indomani della vittoria della Dc sul fronte popolare il 18 aprile) con i suoi baschi verdi, inventati da lui come distintivo dell’Azione Cattolica e segnale – come dirà più tardi – di un modo trionfante di essere Chiesa”. Per Carretto – ha aggiunto – “il richiamo improvviso del deserto non è tanto un’alternativa al troppo attivismo apostolico, è invece l’altra faccia dell’amore che gli veniva prepotentemente richiesta; insomma un altro genere di azione, non quella dell’assalto all’altare, dell’utilizzo del sacro, magari per fini apologetici, ma quella che lascia spazio alla sua carità che per sua natura è universale, casta, equilibrata, santa. E lo stesso – ha detto – del fuoco della carità di Caterina da Siena, impegnata a lottare contro le perversioni del potere politico e religioso”, ricordando che “la promozione del bene comune non ha nulla di sacrale o di metafisico: è virtù politica dell’ordine temporale che contiene in sé una indubbia riserva escatologica”.

D’AGOSTINO: TRA BIOPOLITICA E FAMIGLIA È IN ATTO UNA GUERRA EPOCALE La famiglia è oggi oggetto di “aggressioni biopolitiche”, anzi “tra biopolitica e famiglia è in atto una guerra epocale”. Ne è convinto Francesco D’Agostino, ordinario di filosofia del diritto all’Università Tor Vegata di Roma, che nella terza giornata della Settimana Sociale (testo integrale) si è scagliato contro la “pretesa, ormai non più teorica, di negare la differenza sessuale nel riconoscimento pubblico del matrimonio” o di “favorire pratiche di procreazione che separano coniugazione e procreazione, ad esempio ammettendo le donne sole alla fecondazione assistita o avallando pratiche di affitto dell’utero”. “Il paradigma biopolitico –ha ammonito il giurista – va decostruito prima che esso giunga alla soglia irreversibile dell’implosione, prima cioè che apra le porte all’avvento del post-umano”, attivando “un impegno radicale per la difesa della dimensione privata del bios” e cercando di “ricostruire in chiave positiva una categoria di carattere fondamentale: la categoria della fragilità”. “Il compito che aspetta la nostra generazione – ha concluso il relatore – è quello prima di aprire gli occhi sulla realtà di un potere pervasivo e impersonale che, assimilando corpo biologico e corpo politico, toglie al primo la sua identità e al secondo la sua dignità, e poi di negarsi ad ogni forma di omologazione biopolitica”.

“L’orizzonte della biopolitica è ben più ampio di quello della bioetica”, ed oggi “la pervasività della biopolitica è inquietante. La biopolitica – ha spiegato il relatore – è quel paradigma tipicamente moderno che ritiene l’humanitas non un presupposto, ma un prodotto della prassi”. Tra gli esempi di biopolitica, D’Agostino ha citato “la legalizzazione pressoché planetaria dell’aborto, avvenuta non casualmente in un arco temporale estremamente ridotto e caratterizzato almeno in Occidente dal consolidarsi del modello democratico”: “segno inequivocabile”, per il giurista, “della forza con cui il paradigma biopolitico pretende di gestire la nuda vita, autorizzandone l’esistenza o almeno sindacandone la stessa legittimazione sociale”. Secondo esempio “plateale” del consolidarsi del paradigma biopolitico: “l’alterazione dell’ equilibrio alla nascita tra i sessi”, come in India e in Cina, dove risultano “palesemente inefficaci” rimedi quali “la repressione penale degli aborti selettivi”, fino “alla proibizione di qualsiasi indagine prenatale volta a individuare il sesso dei nascituri”.

“Tra i massimi problemi della bioetica” c’è poi, per D’Agostino, “quello delle pratiche di procreazione assistita, responsabili della formazione di embrioni soprannumerari congelati, destinati a non essere mai impiantati”. Nel Regno Unito, ad esempio, si ordina “la periodica distruzione di questi embrioni, indipendentemente da qualsiasi verifica della loro vitalità e senza che si possa addurre una giustificazione – se non politica – di questa prassi”. E ancora: “Le forti tensioni a favore della legalizzazione dell’eutanasia che caratterizzano pressoché tutti i Paesi occidentali”. “Come l’aborto si è trasformato, da decisione tragica e personalissima di alcune donne, in una pratica sociale di regolamentazione delle nascite, così l’eutanasia si è trasformata da atto omicida estremo in una pratica di gestione burocratica e biopolitica della fine della vita umana”, è la denuncia del relatore, secondo il quale solo “in apparenza” i fautori dell’eutanasia “vogliono semplicemente legalizzare quello che essi chiamano il suicidio assistito”. Nei fatti, del resto, “il tema dell’eutanasia come suicidio assistito è ormai obsoleto”, ha puntualizzato D’Agostino, visto che “in Olanda il 31% dei pediatri sopprime i neonati malformati, oltre tutto senza acquisire il consenso dei genitori” e in Svizzera “la Corte Suprema ha stabilito che il malato mentale ha un diritto costituzionale ad essere soppresso”.

PALAZZANI: NELL’IDEOLOGIA GENDER LA BIOPOLITICA SI MANIFESTA COME POTERE SULLA VITA “Uno dei percorsi nei quali è riconoscibile la biopolitica come potere sulla vita è individuabile nella diffusione della ideologia gender che pretende la legittimazione del potere riproduttivo (in particolare delle donne) e del potere di scelta dell’orientamento sessuale (per ogni individuo)”. È quanto ha affermato Laura Palazzani, docente di filosofia del diritto all’Università Lumsa di Roma, intervenendo alla Settimana Sociale dopo la relazione di D’Agostino. Palazzani ha rilevato che “la tesi dell’identità di genere (gender) è stata estesa alla considerazione delle persone omosessuali, con l’obiettivo di mostrare come una persona geneticamente maschio possa percepirsi femmina e viceversa e alle persone transessuali, evidenziando come alcune persone di sesso maschile si sentano intrappolate nel loro corpo sentendosi donne e viceversa”. La relatrice ha poi notato che il relativismo etico si estende a queste situazioni proponendosi di “dimostrare come l’identità di genere abbia o possa avere una priorità rispetto all’identità sessuale, considerandola una prova della priorità della cultura sulla natura. In questa prospettiva ciò che conta non è il fatto di nascere maschi o femmine, ma come si è educati nella famiglia e nella società, come ci si percepisce nella sfera psichica soggettiva. Da qui l’intenzione di sostituire il genere sociale al sesso naturale”.

Tra gli aspetti trattati da Palazzani c’è quello del “femminismo di genere”, consistente – ha spiegato la relatrice – nello svalutare “la differenza sessuale naturale ritenendola un elemento da negare e combattere, in quanto ha determinato e continua a determinare la fissazione di ruoli e a costruire gerarchie di potere; la famiglia fondata sul matrimonio e la femminilità identificata con la maternità biologica e l’accudimento domestico, sono considerate costruzioni maschiliste da decostruire e di cui disfarsi per progettare biopoliticamente una società che superi la differenza sessuale, liberando la donna dall’oppressione patriarcale”. Palazzani ha poi notato che “l’obiettivo del femminismo di genere è quello di attribuire alle donne il biopotere o potere sul proprio corpo”. Da qui – secondo Palazzani – emerge anche la richiesta di tecnologie riproduttive “per consentire alla donna di emanciparsi dal ruolo riproduttivo”, come pure della fecondazione assistita in vitro omologa o eterologa (con donatore esterno anonimo). E ancora: emerge la richiesta alla surrogazione della maternità (gratuita o retribuita), alla ectogenesi e alla clonazione (che consentirebbe alla donna di produrre una figlia, autonomamente mediante prelievo di cellula somatica, trasferimento di nucleo in un ovocita e gestazione).

BELARDINELLI: L’ARGINE ALLA BIOPOLITICA È IL CONCETTO DI PERSONA “Al di là degli usi a volte ambigui a volte inconsistenti che se ne fanno”, il concetto di persona “può ancora costituire un argine alla biopolitica oggi imperante”. Lo ha detto Sergio Belardinelli, ordinario di Sociologia dei processi culturali all’Università di Bologna, intervenendo alla terza giornata della Settimana Sociale. “Specialmente – ha spiegato – se siamo in grado di mostrare in modo convincente, in primo luogo, che gli uomini, tutti gli uomini, sono persone per natura, non per scelta o per concessione da parte di questo o quel potere” e che, in secondo luogo, “ci sono degli obblighi che scaturiscono verso quanti sono definiti persone”, come “il rispetto della loro integrità fisica, dall’inizio alla fine, e della loro libertà”. Un altro “principio identitario” della persona sul quale, specialmente oggi, “giova insistere” è la sua “unicità”, dalla quale – per il relatore – “consegue qualcosa di politicamente assai importante: la pluralità delle persone”, che ha a che fare non solo con la nostra corporeità, ma “soprattutto con la nostra interiorità, la nostra eccentricità, la nostra capacità di riflessione e di azione, la nostra capacità di metterci al posto dell’altro”: tutte caratteristiche, queste, che “non possono essere colonizzate da nessun potere”. CANGIOTTI: RIDARE SIGNIFICATO ALL’ESPERIENZA FAMILIARE “La prospettiva biopolitica dell’annullamento progressivo della dimensione privata comporta una lesione di enorme portata rispetto all’esperienza famigliare e, tramite essa, un grave danneggiamento dell’identità della persona umana”. Lo ha detto Marco Cangiotti, docente di filosofia politica all’Università di Urbino, intervenendo alla terza giornata della Settimana Sociale. “A questa logica – è la tesi di fondo del relatore – non è ormai sufficiente tentare di rispondere solamente con la richiesta di politiche a sostegno della famiglia, perché l’attacco a cui essa è sottoposta non è solo di natura economica o sociale, ma culturale”. Di qui la necessità di “ridare una prospettiva di significato alla sfera dell’esperienza familiare”, attraverso “un percorso educativo che riapra agli uomini del nostro tempo una rinnovata relazione con la propria verità umana”. Tra gli orientamenti biopolitici con cui bisogna fare i conti, Cangiotti ha citato “la tendenza a selezionare, tramite le pratiche della manipolazione genetica, il sesso del nascituro” e quella “ancor più grave ad operare una sempre più marcata procedura di selezione eugenetica di embrioni e feti”. In questa prospettiva, ha denunciato il relatore, “i nomi di padre o madre diventano perciò sinonimo di padrone e signore”, e l’esito finale è il “deperimento dell’esperienza della paternità e maternità”. PALMERINI, INQUADRAMENTO GIURIDICO DEI TEMI DELLA VITA E DELLA MORTE “La legge n. 194/78 sull’interruzione della gravidanza non qualifica l’aborto come oggetto di un diritto fondamentale; al contrario, regolandolo, sulla spinta della sentenza della Corte costituzionale che aveva depenalizzato l’aborto su donna consenziente, propone un bilanciamento tra valori in conflitto all’esito del quale soltanto la tutela della salute della donna può risultare prevalente sulla vita del concepito”. È quanto ha affermato Enrica Palmerini, giurista e docente alla scuola Superiore S.Anna di Pisa, intervenendo alla quarta sessione della Settimana Sociale. Anche con la legge 40/2004 – secondo la relatrice – si è voluto porre fine “ad un’astensione che, se in parte era attuata per non legittimare pratiche sulle quali non vi è un diffuso consenso sociale e, soprattutto, convergenza a livello politico, finiva in sostanza per abbandonare la procreazione assistita a dinamiche puramente fattuali, alla prassi non assistita da alcuna regola”. Anche sui temi del “fine vita” – ha poi aggiunto – “la rinuncia a inquadrare giuridicamente e a qualificare posizioni di interesse che si radicano nella sfera vitale per il timore di interpretazioni soggettive e discrezionali di concetti complessi e indeterminati” può “finire per tradire un senso di abbandono”. DI PIETRO: CAPIRE QUAL È IL LIMITE TRA L’UMANO E IL SUBUMANO “Il grande rischio, oggi, è quello di non riuscire più a capire quale è il limite tra l’umano e il subumano”. Lo ha detto Maria Luisa Di Pietro, presidente dell’Associazione “Scienza & Vita”, intervenendo oggi alla terza giornata della Settimana Sociale. Ciò che in bioetica occorre evitare, secondo l’esperta, è “ogni riduzionismo antropologico e biologico”, che non tenga presente ad esempio che “pratiche come la clonazione o la partenogenesi sono forme di riproduzione non tipiche del genere umano, ma di generi inferiori”. Per “Scienza & Vita”, in particolare, “la questione antropologica parte dalla convinzione che l’essere umano è da rispettare dal concepimento fino alla morte, e che il bene comune è rappresentato prima di tutto dal bene della vita, fondamentale e comune ad ogni essere umano”. In questa prospettiva, secondo Di Pietro, “questione antropologica e bene comune sono il punto di partenza e il punto di arrivo”, perché “se non c’è tutela della vita, parlare di pace e di giustizia non è possibile; la società non avrà basi solide e non si rinnoverà”. Di qui la necessità che sui temi legati alla vita “si evitino compromessi, senza appiattirsi sull’esistente ma impegnandosi per il bene comune nelle situazioni concrete”. BINETTI, “RISCOPRIRE IL SENSO DEL DOLORE E DELLA SOFFERENZA” “Riscoprire il senso del dolore e della sofferenza, aiutando a far capire che con la sofferenza si può convivere, facendosene carico in qualche modo”. È questo, secondo la senatrice Paola Binetti, il compito dei cattolici nel clima culturale attuale, dove “è continua e costante la pressione dei media nell’insistere su casi pietosi e spingere a decidere su di essi”. Quella attuale – è infatti l’analisi tracciata da Binetti durante la terza giornata della Settimana Sociale – è “una cultura che vuole non solo perseguire il mito della salute perfetta, ma anche ritiene giusto eliminare la sofferenza eliminando i sofferenti”. “Nessuno – ha obiettato la senatrice – dice esplicitamente che c’è qualcuno che pretende di decidere sulla vita o sulla morte delle persone, altrimenti sarebbe smascherato facilmente”. L’insistere sulla “pietas” in casi come quelli di Welby, Nuvoli o – ultima in ordine di tempo – Eluana Englaro viene fatto, invece, all’insegna di esortare l’opinione pubblica a “non chiudere gli occhi di fronte alla sofferenza della singola persona”. Di qui la necessità, ha concluso Binetti, di “ritrovare l’idea che la sofferenza, il dolore, possono ancora essere il cemento efficace per scoprire il bene comune come bene relazionale”.

V Sessione: Pisa – Sabato 20 ottobre 2007 (pomeriggio)

ALICI: CRESCE LA SEPARAZIONE TRA PUBBLICO E PRIVATO Oggi c’è una “crescente dissociazione tra sfera pubblica e sfera privata”, a cui corrisponde “un andirivieni disinvolto e quasi schizofrenico fra modelli etici radicalmente incompatibili: un’etica severamente normativa, al limite dell’accanimento, nella sfera pubblica; un’etica gelosamente soggettivistica, al limite dell’emotivismo, nella sfera privata”. È la denuncia di Luigi Alici, ordinario di filosofia morale all’Università di Macerata e presidente dell’Azione Cattolica italiana, intervenuto alla quinta sessione della Settimana Sociale (testo integrale). Secondo Alici, oggi “si assiste ad un singolare gioco delle parti: ad una pubblicizzazione del privato, esibito fino all’indecenza, corrisponde una privatizzazione del pubblico, occultato fino alla clandestinità”. In base a questa prospettiva, “le storie private sono messe in piazza, mentre i poteri invisibili sembrano allontanarsi dalle aule delle istituzioni”. Per Alici, “c’è un’oscenità esibita con cui ci illudiamo di conquistare visibilità nello spazio pubblico, ma c’è un’oscenità non meno grave, fatta di silenzi omertosi, di decisioni prese in conventicole segrete, dove dalle scelte di pochi intimi dipendono lo sviluppo e persino la vita di intere popolazioni”. Di qui la necessità di contrastare quello che Alici ha definito “un agnosticismo antropologico, che respinge nell’anonimato l’intero spazio del convivere”. Solo “una cultura e una prassi della partecipazione” possono essere “l’antidoto indispensabile per motivare una forma di reciprocità aperta, dilatando la rete delle appartenenze e della cittadinanza, dall’ambito primario della famiglia a quello della società civile, fino a comprendere l’intera famiglia umana”, ha detto ancora Luigi Alici. Tutto ciò, ha proseguito il relatore, “senza dimenticare l’enigma inquietante di una fraternità ferita, ma anche senza rinunciare mai a dilatare instancabilmente le frontiere dell’inclusione, in una sana dialettica di amore e giustizia”. È da questa “doppia cittadinanza”, secondo Alici, che per i cattolici deriva “un’intera gamma di virtù sociali, dalla sobrietà dei consumi alla sincerità del dialogo e alla generosità della cooperazione”. Alle nuove generazioni, dunque, va trasmesso “l’alfabeto dell’essere e del bene”: a partire dalla vita e dalla pace, “i due pilastri irrinunciabili” per “un habitat educativo degno e accogliente per la persona umana”. A patto, però, di “liberare i valori della vita e dalla pace da ogni interpretazione utilitaristica” o ideologica e da impedire “a una sana dialettica democratica di soccombere al gioco destabilizzante delle delegittimazioni reciproche”. COLASANTO: FORMAZIONE PROFESSIONALE, UN CHIARO CASO DI SUCCESSO FORMATIVO“La formazione professionale regionale, pur avendo una storia lunga e significativa, è condizionata da molti stereotipi. Eppure, sembra dare altri risultati in grado di far esercitare una cittadinanza attiva a quanti la frequentano”. Lo ha detto Michele Colasanto, docente di sociologia all’Università Cattolica e presidente di “Forma”, l’aggregazione degli enti di formazione professionale italiani di ispirazione cristiana (Confap, Acli, Mcl e altri). “Occorre ricordare che ci sono 150mila giovani sotto i 18 anni che oggi sono fuori da ogni canale formativo, specie nelle periferie urbane, spesso ripetenti e senza occupazione di alcun genere. Ci sono poi 1 milione di giovani fra 18 e 24 anni che non hanno una qualifica”, ha aggiunto. “A loro bisogna dare una risposta educativa e formativa. Mi sembra che nel tempo, ed è un tempo ormai lungo, hanno corrisposto a questo diritto i centri di formazione professionale di ispirazione cristiana”, ha proseguito, ricordando che spesso i frequentanti la formazione professionale “sono giovani estremamente meno incerti verso il futuro, più sicuri di avere un lavoro, realistici sui lavori che pensano di poter fare. È un chiaro caso di capacità di successo formativo – ha concluso – partendo dalla libertà educativa e formativa”. RIBOLZI E CHIOSSO: EDUCARE SUSCITANDO UNA RISPOSTA NEL CUORE DEI GIOVANI“L’istruzione è un bene contagioso, che si riproduce tanto più siamo in grado di farne parte agli altri. L’educazione in campo cattolico si basa su un concetto di servizio”. Lo ha ricordato Luisa Ribolzi, docente di sociologia dell’educazione a Genova, intervenendo alla sessione della Settimana Sociale dedicata all’educazione. “I ragazzi sono disponibili a fare fatica se colgono un interesse e un motivo per agire”, ha aggiunto, richiamando il significato dell’educazione cattolica come “far crescere l’uomo verso il destino di pienezza e felicità”. Secondo il pedagogista Giorgio Chiosso dell’Università di Torino, “la stabilità di una società non dipende soltanto dal buon funzionamento delle istituzioni ma dalle virtù civiche dei suoi cittadini. Si tratta di veri e propri elementi costitutivi dell’integrità democratica”. Il relatore ha così sottolineato che l’impegno educativo per trasmettere questi valori civici ha successo “se la proposta riesce a suscitare una risposta nel cuore degli allievi, cioè agire sulle convinzioni più profonde”. MINISTRO FIORONI: PREMIARE I MERITI E SALDARE I DEBITI“Rispettare le regole, premiare i meriti e saldare i debiti, ma soprattutto promuovere corresponsabilità per svolgere un’autentica funzione educativa”. Il ministro della Pubblica istruzione Giuseppe Fioroni è intervenuto alla Settimana Sociale dei cattolici per condividere la preoccupazione educativa, al centro della riflessione del pomeriggio di oggi. “Anche a scuola – ha detto il ministro – bisogna creare percorsi di legalità, bisogna riconoscere il bene e il male. Sono opportuni e necessari, certo, percorsi di recupero e di reinserimento, ma senza dimenticare che il male va sanzionato. Questo vale, ad esempio, a proposito dei debiti scolastici: le lacune sono un male e vanno recuperate. A maggior ragione questo vale nei casi di violenza e bullismo: bisogna certamente mirare al reinserimento e al recupero, ma bisogna anche punire con chiarezza i comportamenti negativi”. Per il ministro lo sforzo educativo va condiviso, anzitutto con le famiglie, prime titolari dell’educazione e oggi spesso in difficoltà: “Bisogna scuoterle dal torpore, anche richiamando con le norme le loro responsabilità, ad esempio contribuendo in solido e partecipando economicamente a risarcire i danni di eventuali episodi di vandalismo di cui si rendono responsabili i ragazzi. È un modo anche questo di coinvolgere all’opera comune dell’educazione e della scuola, che non è di destra o di sinistra, ma di tutti e del futuro”.

VI Sessione: Pisa – Domenica 21 ottobre 2007

P. SIMONE: I CATTOLICI CHE SI IMPEGNANO IN POLITICA NON POSSONO FARLO A NOME DELLA CHIESA“La Chiesa non è e non intende essere un agente politico, ma nello stesso tempo ha un interesse profondo per la comunità politica, la cui anima è la giustizia”. A ripetere queste parole pronunciate di recente dal Papa è stato padre Michele Simone, vicedirettore di “Civiltà Cattolica”, che ha aperto la giornata conclusiva della 45ª Settimana Sociale dei cattolici italiani. “Una delle conseguenze di questa affermazione – ha proseguito introducendo la tavola rotonda conclusiva, sul tema “Un futuro per il bene comune?” – è che il cristiano laico che si impegna in politica non lo fa né può farlo a nome della Chiesa, né può ipotizzare un mandato di questo genere, ma attua la sua vocazione di servizio conquistando i consensi uno ad uno, con la propria personalità, e rispondendo alla propria coscienza, che si suppone informata e formata”. All’ultima giornata dei lavori della Settimana Sociale partecipa anche il presidente della Cei, mons. Angelo Bagnasco, che aveva aperto la sessione inaugurale di Pistoia. MONS. GIORDANO: EUROPA, PERSONA E CRISTIANESIMO PER PENSARE UN FUTURO DEL BENE COMUNEEuropa e bene comune. Questo il cuore dell’intervento di mons. Aldo Giordano, segretario del Consiglio delle conferenze episcopali europee (Ccee), alla Settimana sociale. “Per pensare un futuro del bene comune in Europa credo occorra dare contenuto a tre parole”, ha detto mons. Giordano. La prima è proprio “Europa”. La vicenda del Trattato e il dibattito sulle radici cristiane, ha sottolineato, “esprimono la difficoltà nella ricerca di un bene comune”: un bene che è “economico”, ma anche “politico, cioè basato sulla pace, su come evitare tragedie come le guerre mondiali”. Questione centrale è quella dei “confini dell’Europa”. Dopo la caduta del muro, ha evidenziato, “l’Est ha preso coscienza che il crollo del comunismo non significava l’entrata nella terra promessa”. Vi è poi “il problema della giustizia”: i beni confiscati dal comunismo non sono stati restituiti, ma al contempo “questi popoli devono affrontare la logica del libero mercato, che ha prodotto dei vincenti, ma anche molti perdenti”. Ancora, “si è diffusa una paura riguardo ai valori: l’incontro con la modernità occidentale – ha domandato – non implica forse una pericolosa crisi per la propria tradizione e i suoi valori?”. “Il bene comune dell’Europa riguarda tutto il mondo”, ha precisato mons. Giordano, ricordando che “parlare di confini significa pensare l’Europa non come fortezza, ma in supporto con gli altri continenti”. L’Europa, ha aggiunto, “è chiamata a un nuovo confronto con l’Asia”, come pure “deve essere aperta al mondo, anche perché il mondo sta venendo in Europa”. “Le comunicazioni e le migrazioni rendono reale il villaggio globale”, ha evidenziato, e queste ultime “stanno cambiando il volto dei nostri Paesi”. La seconda parola su cui si è soffermato il segretario del Ccee è la “persona umana”. “Occorre riscoprire che la persona è relazione, con il mondo e con l’altro”, e ciò implica la necessità di “recuperare il ruolo dei soggetti sociali”, il primo dei quali è “la famiglia”. Un concetto che “non è definito, mentre ha bisogno di contenuto”. “È vero – ha notato – che l’Ue non ha competenza diretta, ma, attraverso le sue decisioni, ha influenza. Ad esempio, quando si occupa di ricongiungimenti familiari deve mettere in campo la sua concezione di famiglia”. Mons. Giordano ha poi parlato di valori, come la libertà e il senso della vita. “Il bene comune – ha sintetizzato – è la persona umana, nella sua integralità e nei rapporti essenziali che la costituiscono”. Infine, la terza parola essenziale per parlare di futuro del bene comune in Europa è, per mons. Giordano, “cristianesimo”. “Durante il dibattito sulle radici dell’Europa – ha rilevato – si parlava spesso di cristianesimo come di una torta da dividere, circolavano molte maschere del cristianesimo”. “C’è chi ha detto che è un pericolo per la laicità: ma – si è interrogato il presule – è così o piuttosto fonda la vera laicità?”. Come pure c’è chi l’ha contrapposto all’islam e alle altre religioni. “Come può Gesù crocifisso minare il bene comune?”, ha domandato. “Anzi, il bene comune è proprio il Risorto che vive in mezzo a noi, si ha dove due persone sono riunite nel Suo nome”. Esso, ha aggiunto, si ha “nella reciprocità, come dimostra, ad esempio, l’esperienza della generazione di un figlio”. “Se ci contrapponiamo, invece, non è il bene comune che ci guida”. La cattolicità ,dunque, “è una chance, una risposta alla frammentazione”. Il bene comune, infine, “ha valore anche a livello ecumenico, e se si perseguisse sarebbe facile trovare un accordo tra le Chiese, mentre spesso – ha concluso – difendiamo interessi particolari”. AZZI (CREDITO COOPERATIVO): ISTITUTI FIGLI DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA “Le banche e la finanza possono concorrere alla costruzione del bene comune se scelgono di essere strumento di sviluppo dell’economia reale”. Lo ha detto oggi a Pisa, nella tavola rotonda conclusiva della Settimana Sociale, il presidente della Federazione italiana delle Banche di credito cooperativo (Bcc), Alessandro Azzi. “Ciò può realizzarsi se divengono strumento di inclusione nei circuiti economici, se cambiano l’orizzonte delle persone, famiglie e comunità, se permettono di partecipare, di avere voce e di decidere a quanti vogliono intraprendere”, ha aggiunto, richiamando la storia delle Banche di credito cooperativo. “I nostri istituti sono figli della dottrina sociale della Chiesa e coevi delle Settimane Sociali, nati spesso ad opera di sacerdoti e laici illuminati, come strumento di riscatto per gli ultimi e gli esclusi”. Ha citato così alcuni tra i fondatori di casse rurali, quali don Sturzo, don Guetti, don Ceccarelli, Toniolo, Tovini, “preti e laici dal coraggio leoniano”, ha detto, aggiungendo che il premio Nobel al banchiere indiano Yunus “è come fosse stato attribuito ai tanti anonimi fondatori di casse rurali”. ANZANI: LA GIUSTIZIA È LA STRADA PER ARRIVARE AL BENE COMUNE La giustizia come “strada per arrivare al bene comune”, perché ha una “presa diretta con la società”. Lo ha proposto Giuseppe Anzani, magistrato e giornalista, intervenendo alla 45a Settimana Sociale. Il bene comune, ha osservato, è un concetto che tende all’utopia, dato che “finché lasciamo fuori qualcuno il bene non è comune”, mentre la giustizia gli può dare concretezza, poiché “restituisce a ciascuno il suo, nessuno escluso”. L’esigenza di fondo, però, è “fare leggi che non siano solo teoremi del giusto, ma siano sapienti, ossia conducano verso un bene comune”. Il magistrato ha dunque condannato quei cambi di governo che non manifestano rispetto “nei confronti delle regole e dell’ordinamento giuridico”, azzerando quanto deciso dai predecessori. “Perché non si riescono a fare quelle grandi riforme che hanno bisogno di un consenso diffuso?, ha chiesto, osservando che “negli ultimi 15 anni il sistema bipolare ci ha dato qualche stabilità di governo, ma non una stabilità normativa”. Anzi, ha ammonito, vi è stato uno “zelo riformatore” che ha portato a “continui strappi” nell’ordinamento, “come fosse una tela di Penelope”, e, da ultimo, a una legge elettorale “che non piace a nessuno, e ha portato a gettare il nostro potere decisionale nel salvadanaio delle segreterie dei partiti”. SAULLE: CHIAMATI AD AVERE UNA VISIONE PIÙ AMPIA E GLOBALE “Nell’epoca della globalizzazione forse la vera rivoluzione con la quale dobbiamo fare i conti è la temporizzazione istantanea dei fatti, tramite i mezzi di comunicazione sociale”: lo ha detto a Pisa, nella tavola rotonda finale sul futuro del bene comune, Maria Rita Saulle, giudice della Corte Costituzionale. “Questa situazione ci chiede di avere davvero una visione più ampia e globale, perché solo così si affrontano i problemi in maniera efficace – ha aggiunto -. A distanza di 60 anni dalla Dichiarazione universale dei diritti umani l’Onu ha dedicato l’anno 2008 allo slogan: Dignità e giustizia per tutti. In questo ambito penso a come oggi vadano affrontati il trattamento delle religioni, della famiglia, delle libertà fondamentali”. “Mi sembra che una delle sfide per il bene comune del futuro consista nel patto intergenerazionale che va sancito – ha concluso – in coerenza con i valori di fondo ai quali ci ispiriamo e nel rispetto dei valori degli altri”. PEZZOTTA: DALLA SOCIETÀ ITALIANA SALE UNA DOMANDA DI SERENITÀ E DI NORMALITÀ L’affermarsi della globalizzazione; il consolidarsi delle interdipendenze economiche che “stanno generando una nuova divisione internazionale del lavoro”; il crescere della “finanziarizzazione” e l’“invasività della tecnica; il porsi “in termini sempre meno eludibili” della questione ecologica e della salvaguardia del creato. Sono questi i tratti principali di un Paese come il nostro, in cui “le inquietudini tendono a crescere”, anche perché “sono almeno dieci anni che viviamo in una continua ed esasperante campagna elettorale”. A tracciare l’identikit è stato Savino Pezzotta, presidente della Fondazione per il Sud, che ha concluso la tavola rotonda dell’ultima giornata della Settimana Sociale. “Sul piano sociale – ha proseguito – si sono allentati gli elementi di connessione, d’appartenenza, di relazioni, mentre s’è venuta insinuando una propensione individualista e corporativa”. Nonostante ciò, per il relatore, “dalla società italiana sale una domanda di serenità e di normalità”, e molte persone “esprimono, magari attraverso forme e modi non sempre condivisibili, un’esigenza di onestà, di buona politica, di legalità e di partecipazione”. Di qui la necessità di “rilanciare il tema del bene comune” inteso come “scelta antropologica, visione dell’uomo e del suo essere nel mondo”, capace di “rimuovere le situazioni che si oppongono alla realizzazione della vita”. “Solo se saremo in grado di proporre una vita buona e rimuovere le condizioni le situazioni che si oppongono alla sua realizzazione, riusciremo a riproporre la questione del bene comune”, ha detto ancora Savino Pezzotta, secondo il quale “la nostra ispirazione cristiana non è certo un limite, né un elemento da mettere tra parentesi per poter meglio interagire con gli altri, ma una risorsa quanto mai necessaria per il rinnovamento della politica e della qualità della vita civile nel nostro Paese”. Per Pezzotta, inoltre,non è possibile perseguire il bene comune “senza riformulare un nuovo senso dell’appartenenza nazionale, senza riscoprire il senso e il significato di un legame, di una solidarietà, di un destino che ci colloca dentro la dimensione della costruzione dell’unità europea, che è aperto all’accoglienza di nuovi cittadini, sia che vengano per lavorare che come rifugiati perché obbligati dalle situazioni presenti nei loro Paesi”. Tutto ciò, affrontando in primo luogo “con chiarezza le questioni irrisolte del divario tra territori e soprattutto quello tra nord e sud”. Tra le altre urgenze da affrontare, Pezzotta ha elencato quella di “rilanciare la libertà di istruzione e di educazione” e di “risolvere il problema del debito pubblico”. DALLA TORRE: DEVE PROSEGUIRE A LIVELLO LOCALE “La Settimana non è conclusa: prosegue e deve proseguire a livello locale, nelle diverse realtà, approfondendo e amplificando i suoi frutti”. Con queste parole Giuseppe Dalla Torre, rettore della Lumsa, ha concluso la 45ª edizione della Settimana Sociale (testo integrale), esortando i cattolici “a non rimanere spettatori inerti del volgere delle cose, ma attivi e responsabili partecipi alla costruzione di una società migliore, secondo gli insegnamenti di Toniolo e di quanti – nel corso di 1 secolo – si sono succeduti in queste assemblee e nella vita del Paese”. Tra le prospettive di impegno, Dalla Torre ha citato la necessità di “creare reti tra la molteplicità ricca di esperienze di vario tipo che caratterizzano il cattolicesimo italiano”, di “favorire la nascita e la crescita di luoghi di incontro e di riflessione che possono giovare all’impegno nel sociale e nel politico” e di “sviluppare tutte le potenzialità della nostra Carta costituzionale, in particolare quelle contenute nella riforma del titolo V, rimaste per lo più una bella promessa”.

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Tra i delegati toscani: occasione importanteE’ un mondo cattolico vitale quello che emerge dalla Settimana Sociale. Lo pensa il professor Paolo Moneta, docente di diritto canonico all’ateneo pisano. «Anche i vescovi ed i sacerdoti, durante le sessioni di lavoro, sono intervenuti più volte, portando il loro contributo. Molto interessanti le relazioni di Zamagni e di D’Agostino: naturalmente teoriche, da tradurre nella realtà».

«La Settimana sociale? Un’occasione importante per confermare l’identità cristiana nella società civile». Così l’avvocato Gabriele Pica Alfieri, pratese, già presidente locale dell’associazione dei giuristi cattolici, delegato all’assise del centenario. «Mi ha colpito molto l’intervento di Stefano Zamagni. Un pensiero, il suo, che guarda al futuro» ad un diverso modo di fare impresa in Italia. Per dirla con uno slogan «più dottrina sociale della Chiesa anche nelle imprese e negli istituti di credito»: oggi le une e le altre non sono capaci di incrociare le esigenze dei ceti più deboli della società. E sui temi della bioetica? «Non dobbiamo arroccarci, ma riuscire a dialogare con il mondo laico».

Sauro Bellini, 82 anni, presidente dell’associazione degli artigiani cattolici (Acai) di Settimane sociali ne ha vissute venti. «La prima cui partecipai? A Pisa nel 1954. Ero ancora un ragazzo e muovevo i primi passi nel mondo del lavoro» ci confida mentre siamo a tavola alla Leopolda, insieme a ottocento delegati ben serviti dal catering Del Carlo di Calci. Anche quest’anno il nostro ha voluto essere presente: «centrato, anzi centratissimo il tema scelto per l’edizione del centenario… il bene comune … è questione di grande attualità in questo momento della vita politica e istituzionale italiana».

Francesca Scarpellini

Il sito delle Settimane sociali (con i testi integrali degli interventi)