Italia

A metà del secolo ci saranno più novantenni che bambini

Se nel 1991 Italia e Francia avevano grosso modo la stessa popolazione, nel 2050 continuando così le cose la Francia avrà 15 milioni di abitanti in più rispetto a noi». Parola di Massimo Livi Bacci, demografo nonché accademico dei Lincei, presentando un notevole convegno («Verso la metà del secolo: un’Italia più piccola?») che si è svolto allo «Stensen» di Firenze su iniziativa di Neodemos, associazione – fondata anche dallo stesso Livi Bacci – che ha compiuto 10 anni tutti dedicati «alla buona e seria divulgazione degli studi e delle analisi tra tendenze demografiche e società, economia e politica».

Già nella presentazione non sono mancate riflessioni su una regressione demografica che avrà, per l’Italia, conseguenze forti. «A distanza di una sola generazione da oggi, l’Italia avrà molti milioni di abitanti in meno con conseguenze di grande rilievo: forte diminuzione di giovani e adulti, fortissimo aumento di popolazione anziana, uno stravolgimento della struttura per età mai avvenuto nella storia del Paese che metterà in tensione il sistema di welfare, frenerà la produttività, ridimensionerà il peso economico del Paese nel sistema internazionale».

Servirebbero – è stato ricordato – almeno due figli per ciascuna donna, ma in Italia siamo fermi ad appena 1,3 e già oggi questo porta a un calo di abitanti. Già adesso siamo meno, come numero, rispetto a tre anni fa. Ma nel 2050, a metà secolo, il nostro Paese sarà popolato, ad esempio, da un numero di donne 90enni pari alle bambine di 10 anni. Scenari sconcertanti per una questione tutta politica – ha sottolineato Livi Bacci – per nulla sostenibile. Se non attraverso «una fortissima immigrazione per la quale, peraltro, non siamo preparati».

L’associazione fiorentina ha presentato in Senato una ricerca (e-book scaricabile dal sito di Neodemos) proprio sulla questione («ius soli/ius culturae») che tanto sta facendo discutere: ma sta facendo discutere, ecco un punto, su basi irrazionali, prive di riscontri con la realtà. Grazie anche a un certo modo di fare cattiva informazione siamo convinti (e spaventati) che in Italia siano arrivati chissà quanti immigrati: in realtà sono circa 5 milioni (fra l’8 e il 9% della popolazione) che, oltretutto, contribuiscono al PIL per circa il 10%. Detto in altre parole, l’Italia trae non poco vantaggio dagli immigrati anche se è giusto ricordare come a portare benefici non sia, genericamente, «ogni modello di immigrazione». La questione, da demografica, si fa tutta politica. Basti pensare al dramma, in molte zone già tale, nelle aree interne e montane; o a politiche familiari che non possono certo limitarsi a «bonus» episodici ma dovrebbero somigliare a quelle francesi o a quelle scandinave.

Per gestire problemi così complessi (compreso il fatto che comunità sempre più popolate da anziani tendono, in modo inevitabile, a essere sempre più chiuse, conservatrici, incapaci di tenere il ritmo di trasformazioni così rapide e radicali), occorrerebbe un ceto politico capace di pensare, e di agire, in prospettiva medio lunga non limitandosi ai brevi scenari di una, limitatissima, legislatura. Ecco un altro problema. Di non poco conto.

Fra i partecipanti all’incontro Ilvo Diamanti («Immigrazione e insicurezza»), Emanuele Felice («Popolazione e reddito in Italia»), Telmo Pievani («L’Italia nell’antropocene: cambiamenti climatici e scenari di popolazione»), Silvana Salvini («La popolazione italiana oggi e domani»). Gad Lerner ha condotto una tavola rotonda finale con Romano Prodi, Chiara Saraceno, Giampiero Dalla Zuanna e Massimo Livi Bacci.

Un contatore in tempo reale, sul sito della associazione, indica in quasi 61 milioni gli abitanti della penisola. Già oggi il rapporto fra giovani (0-19) e over sessantenni parla una lingua inequivocabile: i primi stazionano attorno agli 11 milioni mentre i secondi arrivano a 17 milioni e mezzo.

Appello alla politica: invertire la rotta

Qualcuno è rimasto deluso. Per esempio qualche collega giornalista che per tutto il convegno – ma i giovani, si sa, oggi sono tutti … multitasking – ha prestato più attenzione a tenere aggiornato il profilo social che alle parole del convegno: forse si aspettava, specie da Romano Prodi, battute stravolgenti sulla attualità politica che proprio nelle stesse ore vedeva «celebrarsi» il rito della Leopolda numero otto. Battute che (al di là di un, ironico, «cose da giovani») non sono arrivate. Da qui, forse, la «delusione».

Introdotto da un padre Ennio Brovedani che a Firenze, da mesi, sta sperimentando sulla sua pelle certe contraddizioni e certe fatiche della presenza fra noi dei migranti, l’appuntamento nell’affollata sala dello Stensen non ha regalato inutili contributi al solito parlarsi addosso della triste politica attuale: è stata però una buona occasione per riflettere su scenari che della politica, di una politica buona e dalle dimensioni almeno europee, avrebbero tanto bisogno.

Incontro dunque «noioso», da cui è difficile tirar fuori titoli brillanti. Ma per quei pochi che proprio non ce la fanno più a sopportare la «brillantezza» e la leggerezza di molta informazione fra il politico e il politicista, è stato un pomeriggio comunque intenso, pieno di stimoli.

Introdotta da Gustavo de Santis, presidente Neodemos, la tavola rotonda è partita nientemeno che con l’antropocene (non è parolaccia. Significa, grosso modo, l’epoca geologica attuale: quella in cui siamo immersi, caratterizzata da mutazioni climatiche con cui stiamo facendo pesanti conti) citata dal filosofo Telmo Pievani. Dallo scoppio della atomica (1945. È da qui che molti fanno partire l’antropocene) ci stiamo rapidamente avvicinando – queste le considerazioni dell’evoluzionista – dentro la «sesta strage ecologica»: l’ultima già avvenuta, la quinta, ci rimanda alla scomparsa dei dinosauri.

Oggi, a causa dei comportamenti nostri, già abbiamo estinto un terzo di tutte le forme di vita e se proseguiamo con questo ritmo la catastrofe è sicura. Ma prima, nel giro di pochi decenni, avremo a che fare con grandi migrazioni causate proprio dai disastri ambientali che noi stessi, con i nostri stili di vita, stiamo provocando. Invertire la rotta sarebbe ancora possibile – si sbilancia Pievani – ma occorrerebbe che tutti noi imparassimo a educarci su due … piccole cose: cittadinanza e lungimiranza. E tutto ciò, oltretutto, «richiede scelte assai costose e tali da non portare vantaggi, ai politici, nella prossima campagna elettorale».

È toccato alla demografa fiorentina Silvana Salvini il compito di raccontare la popolazione italiana oggi e domani. Oggi vuol dire speranza di vita sempre più alta (85 per le donne e 80 per gli uomini, ma la distanza si sta avvicinando) e tasso di fecondità sempre più basso (1,34 figli per donna). Il domani, secondo un sondaggio condotto fra circa 200 demografi italiani, è triste: sempre più vecchi, sempre più morti; una popolazione sempre meno «italiana» con numeri sempre più alti di immigrati.

Con l’occhio dell’economista attento alla storia, Emanuele Felice ha tracciato storia e prospettive del rapporto fra popolazione e reddito nel nostro Paese. All’inizio degli anni Cinquanta la speranza di vita si fermava a 65 anni e mezzo: gente come me, in altre parole, oggi starebbe – almeno statisticamente – per passare all’altro mondo mentre oggi (evviva!) possiamo contare su almeno altri tre lustri.

Stando così le cose, fra mezzo secolo il nostro Sud avrà perso ben 5 degli attuali 21 milioni di abitanti in una sorta di «eutanasia della questione meridionale» che potrebbe ancora essere invertita, ad esempio con una diversa selezione dei flussi migratori. Ma per fare questo, per affrontare questo tipo di sfide, occorrerebbe una classe dirigente di cui oggi, anche per l’economista Felice, non si intravede l’esistenza.

Un assai atteso Ilvo Diamanti si è incaricato di trattare il rapporto fra immigrazione e sensazioni di insicurezza. Da 10 anni, con la sua Demos, studia queste cose ed è dunque la persona giusta per ricordare, specie ai giornalisti, la stretta dipendenza che lega paura nei cittadini e rappresentazioni mediatiche dell’immigrazione. Se i tg serali (tutti, nessuno escluso) martellano in un certo modo chi si informa prevalentemente grazie a loro, non è strano che gli indici di insicurezza balzino in alto: non è strana la paura per quella che viene avvertita come «invasione», non è strana la diffidenza verso l’Europa (in pochi anni l’Italia è passata dall’essere la nazione più «euroentusiastica» a un oggi di «eurocinismo»), non è strano che gli immigrati vengano considerati un pericolo per la nostra sicurezza.

Dalle ricerche Demos risulta che il 33% dello spazio nei grandi tg serali sia dedicato proprio ai temi delle migrazioni. Per non parlare dei «contenitori» pomeridiani che, in tv, creano un «uomo sempre più spaventato» ma anche incapace di superare lo spavento spesso creato ad arte «in una società continuamente in campagna elettorale».

Non certo a caso, da tutti i relatori è arrivato una sorta di appello alla politica. La demografia, in altri termini, concorda su scenari e prospettive raccontandoci un’Italia che fra una o due generazioni, non fra qualche secolo, dovrà fare i conti con forti tensioni nel sistema del welfare e con una produttività a dir poco frenata. Sarà un’Italia né per giovani né per vecchi: di sicuro una Italia «più piccola», di abitanti e di innovazione. Ma la politica, oggi, si prepara? E, nel caso, come?

Coordinati da Gad Lerner, due demografi, una sociologa e un economista hanno «animato» una tavola rotonda finale purtroppo risultata limitata negli spazi (ci fosse stato più tempo, male non sarebbe stato. Anche visto il peso dei relatori). Massimo Livi Bacci e Gianpiero Dalla Zuanna non si sono fatti scappare l’occasione di tirare la giacca alla politica («Un equilibrio sostenibile nella popolazione si può sempre raggiungere, ma in concreto dipende dalle politiche che saranno o meno attuate»). Da Chiara Saraceno non sono mancate obiezioni sulle politiche legate ai «bonus», nello specifico al «bonus bebé», rispetto a interventi più organici e di lunga durata. E a Romano Prodi non è mancata una bonaria obiezione su una domanda dell’intervistatore sul consueto schema giovani/innovatori e anziani/conservatori. «Attenti: anche una popolazione anziana può innovare; d’altronde oggi – e ovviamente mi riferisco a Macron – siamo governati da una classe politica che più giovane di così non si può, quando l’Europa è stata fondata da tre ottantenni».

Su una constatazione di Dalla Zuanna («I figli sono, oggi, visti come una proprietà privata non come un bene pubblico tanto che, oggi, sono i più ricchi a fare figli e non i più poveri») che si è ulteriormente augurato come la politica italiana sia «sfidata» dal drammatico «calo di bambini» (100 mila in dieci anni e altrettanti nei prossimi 10 anni), Romano Prodi ha confermato come gli interventi in favore della famiglia («che è un fatto stabile») dovrebbero essere «come in Francia, cioè di lunga durata».

Di grande interesse, purtroppo strozzata dal tempo, la parte finale della tavola rotonda. Sulla paura della migrazione. Sul fatto che mentre da noi il tasso di natalità è così basso, il Sud del mondo continuerà, almeno per qualche tempo, a fare tanti più figli: con le conseguenti, inevitabili, pressioni migratorie. Con la Nigeria (Prodi) che a metà secolo avrà tanti abitanti quanto l’intera Europa. Con noi che lasciamo fuggire all’estero tanti nostri giovani. E con qualche suggestione circa le possibilità di «selezionare» i flussi immigratori anche in base alla «qualità» mentre oggi nessuno seleziona alcunché e, dunque, il numero maggiore dei nostri immigrati finisce a lavorare come badanti.

Amara la battuta di Prodi in risposta alla possibile «qualità» da scegliere per i nuovi flussi di immigrazione. «Per adesso abbiamo scelto l’emigrazione di qualità».