Italia

Contro il terrorismo necessario lo scambio tra le «intelligence»

«L’ignoranza divorerà la vostra esistenza ora si sta preparando l’esercito europeo solo per voi così vi opprimerà per bene, e vi farà vedere le cose come stanno». È una delle frasi deliranti che ancora oggi appaiono su «Sharia4Italy». Il post ha la data del «17 agosto 2012, ore 21:54». Il blog è stato ovviamente chiuso e del suo autore si sono perse le tracce. Italia e jihad. Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, nel corso di un’informativa urgente alla Camera, ha parlato di 53 foreign fighters passati per l’Italia di cui quattro sono italiani. Lorenzo Vidino è uno dei massimi esperti di Jihad in Italia. Autore, saggista e collaboratore dell’Ispi di Milano, ha scritto «Il jihadismo autoctono in Italia», un saggio sulla realtà del fondamentalismo islamico che nasce nel nostro Paese.

Professore, quanti sono i terroristi in Italia?

«Sono cifre difficili da stabilire. Le autorità stanno facendo da anni un monitoraggio su questa situazione. Non ci si è assolutamente svegliati adesso. Ci sono chiaramente varie fasce di priorità: soggetti cioè che sono ritenuti attenzionati perché potenzialmente pericolosi; altri invece che sono monitorati come soggetti in fase di radicalizzazione. Sicuramente si può dire che in Italia i numeri sono molto inferiori rispetto agli altri paesi europei. Non abbiamo a che fare con i 1.200 francesi che sono andati in Siria o con i 600 tedeschi e gli 800 inglesi. In Italia parliamo di un numero che si aggira sulla cinquantina e ciò aiuta molto».

Dove possono nascondersi però i buchi?

«Sicuramente niente è perfetto. Innanzitutto c’è una valutazione che è sempre soggettiva. E questo è il problema che hanno avuto anche i francesi. E cioè io posso valutare che il soggetto A è da attenzionare e il soggetto B un po’ meno ma poi alla fine si rivela che il soggetto B era quello più pericoloso».

Ecco appunto, cosa si fa oltre che osservare le situazioni potenzialmente a rischio? Quando e come si stabilisce il momento in cui agire?

«Dipende. Si può agire in certi casi e in altri no. In Italia ci sono norme abbastanza ben fatte: per esempio, qualsiasi attività preparatoria a un attentato è punibile. Chiaro, è difficile capire quando soggetti radicalizzati che parlano, che interloquiscono con altri soggetti su Internet, passeranno in azione. Però, anche nella fase in cui loro parlano, ci sono delle norme che aiutano le autorità a intercettarle e disinnescarle. Per esempio, senza entrare troppo nel tecnico, l’articolo 270 del codice penale punisce chi diffonde informazioni a fini di addestramento per il terrorismo: quindi se io mando link per spiegare come si crea una bomba e insieme allego una serie di informazioni a fini terroristici, questo è un reato. Ci sono casi in cui invece questi soggetti parlano, esprimono pensieri forti, radicali, e questo loro parlare può non configurarsi come reato perché rientra nei limiti di ciò che è tollerato come libertà di parola e tutto ciò che le autorità possono fare è limitarsi a osservare».

Sono lupi solitari o soggetti aggregati?

«C’è di tutto. Ci sono dei soggetti che non hanno alcun legame operativo. Vivono in una comunità virtuale ed interagiscono esclusivamente sui social media. Ci sono poi soggetti che hanno vari livelli di connessione».

Quanto peso hanno le vignette satiriche su Maometto sulla dinamica terroristica?

«Difficile rispondere. Bisognerebbe entrare nella psicologia individuale. Quello che secondo me è un errore, è pensare che tutto ciò è avvenuto a Parigi è stato causato dalle vignette. Esiste un movimento ideologico globale al quale questi tre personaggi appartenevano che ha un disegno politico molto preciso e per il quale le vignette sono solo un dettaglio. Chiaramente le vignette sono uno degli obiettivi da punire ma non pensiamo che se non ci fossero state, i terroristi si sarebbero dati al giardinaggio».

E utile rivedere le regole sulla libera circolazione del sistema Schengen?

«No assolutamente. Andare ad alterare quello che è un traguardo storico a cui è arrivata l’Europa per i fatti di Parigi, non è giustificabile. Ci vuole piuttosto un maggiore scambio di informazioni tra le diverse intelligence».

E poi?

«Soluzioni facili non ce ne sono. Su questo fronte vengono fatti continuamente degli ammodernamenti legislativi, per cui credo che più di tanto non si possa fare. Sicuramente manca personale rispetto al numero alto di soggetti da attenzionare. La realtà è comunque un’altra: in uno stato di diritto non si può controllare tutto. Non si può avere uno stato di polizia. E il prezzo della democrazia è anche questo».