Italia

De Rita: Roma città fragile

Continua a essere sulle prime pagine dei giornali, e non solo italiani, con titoli ben poco gratificanti: Roma «malata», afflitta da un’infinità di problemi che la politica non appare in grado di affrontare. Assediata dalla criminalità, con le periferie in ebollizione, il traffico perennemente in tilt… Così si parla – con un significato ben diverso da quello storiografico – di nuova «questione romana». Ma i cittadini dell’Urbe cosa ne pensano? Come si vive nella capitale? Quali le possibili vie d’uscita per restituire dignità e splendore a una delle città più belle del pianeta, sede, fra l’altro, della Cattedra di Pietro? Al Sir confida alcune chiavi di lettura il sociologo Giuseppe De Rita, magna pars del Censis e attento lettore della realtà italiana.

Ha senso utilizzare l’espressione «città malata»? Di quali patologie soffrirebbe Roma?

«Il dibattito è articolato e le risposte possono essere tante; si tratta di vedere quale sia la più convincente. Io partirei col dire che quella romana è una società fragile, debole, frastagliata. E se pensiamo alla struttura economica della città, vediamo prevalere due settori: il turismo e la pubblica amministrazione. Ma questi due settori non sono certo i più orientati all’innovazione, all’investimento, al miglioramento qualitativo del tessuto sociale o infrastrutturale. In fin dei conti l’operatore turistico aspetta che arrivi il cliente, mentre la pubblica amministrazione è tradizionalmente volta più a conservare che a innovare. In tal senso non vedo un dinamismo diffuso e la società romana non appare spinta a progettare e plasmare il proprio futuro».

Però occorre riconoscere che Roma è una città immensa, popolosa, multietnica, grande il doppio di Milano e dunque difficile da amministrare…

«Vedo una differenza di fondo. A grandi linee potremmo dire che la Milano delle imprese, delle banche, della società civile, del volontariato, mostra ancora un discreto dinamismo e il Comune deve semmai garantire servizi pubblici efficienti che creino un ambiente favorevole a questo movimentismo. L’Amministrazione municipale di Milano deve assicurare che la metropolitana funzioni ampliandone linee e stazioni, come sta avvenendo; che l’Expo – nonostante tutto quello che è accaduto – decolli e si trasformi in un successo; che l’industria e il commercio abbiano attorno un tessuto favorevole. A Roma la città nel suo complesso non mi pare altrettanto in marcia e così il Campidoglio, anche se lo volesse, non potrebbe limitarsi al funzionamento dei servizi, a una urbanistica sostenibile, a occuparsi di strade e fognature che sono in pessimo stato, a organizzare il traffico e i servizi alla persona. A Roma la politica dovrebbe provare a indicare una direzione, a dare un’ambizione condivisa a una società seduta. Ma questo è un compito che esorbita quello di un’Amministrazione cittadina».

Allora come restituire a Roma la dignità di capitale?

«Personalmente ritengo che noi romani non abbiamo sviluppato appieno il senso della dignità di Roma capitale. Ricordiamo anche che storicamente la capitale a Roma l’hanno voluta più i padri risorgimentali che non i romani stessi, i quali in qualche modo l’hanno subita, compresa la caduta del ruolo di capitale dello Stato pontificio. Forse Torino e Firenze avrebbero svolto con maggior convinzione il ruolo di capitale del Regno. Sento spesso anche tanti miei concittadini che si lamentano – e giustamente – per il fatto che a Roma, in quanto capitale, giungano manifestazioni nazionali di ogni sorta che portano disagi alla popolazione locale. Qualcuno pensa: facciamola – che so – ad Abbiategrasso la capitale, così da spostare altrove i disagi legati a questo ruolo. I romani, nonostante siano passati 150 anni, non hanno maturato il gusto dell’essere città simbolo dell’unità dello Stato».

Nel 1974 si svolse il noto convegno ecclesiale sui «mali di Roma». Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti del Tevere. A che punto siamo?

«Io mi sono convinto che prima bisognerebbe pensare alla qualità della città, alla qualità della vita a Roma, poi ci si potrà orientare verso il profilo della capitale. Per far questo occorre in primo luogo far crescere il senso di comunità. Cominciando dal basso, dai quartieri, con i romani protagonisti del loro futuro. Mettendo in comune obiettivi alti, grandi ambizioni. Se nascessero questi progetti di ampio respiro, noi romani li potremmo perseguire insieme. Anche nel ‘74 si era fatto questo discorso, volto a costruire un tessuto comunitario. Ma siamo rimasti là».

Quale il ruolo della politica?

«Sinceramente non vedo oggi, né ho visto in anni passati, una classe politica romana che ambisca a far crescere questo senso della comunità, a dare obiettivi di lungo periodo a Roma e ai romani. Al di là dei gravissimi problemi legati a ‘Mafia capitale’, non scorgo nella politica cittadina l’idea di far maturare un vero e proprio profilo di città. Allora accade che da fuori arrivino i padroni dei quartieri, spesso anche violenti, gli affaristi, e che da dentro si facciano largo i soliti furbi che si occupano dei loro interessi e non del bene della città. È la cronaca di questi ultimi tempi…».

Roma è la città del Papa. I cattolici dove sono dinanzi a queste difficoltà?

«Ritengo che i cattolici possano veramente costituire una delle risorse e delle speranze di questa città. Perché se ci pensiamo, sono proprio i cattolici che sviluppano e perseguono un senso comunitario, che vivono nelle parrocchie, che danno vita ad associazioni, gruppi, volontariato… Pur con tutti i limiti evidenti che mostra la Chiesa a Roma – non mancano infatti le parrocchie chiuse in se stesse, un cattolicesimo un po’ egoista o borghese, sacerdoti invecchiati… -, la venatura comunitaria che attraversa il cattolicesimo romano può ancora fare la differenza. In positivo. Si tratterebbe semmai di chiamare i cattolici che vivono a Roma a un rinnovato senso di responsabilità civica e di protagonismo sociale e politico che può portare grande valore aggiunto alla città».