Italia

È tornato il lavoro a tempo indeterminato. Spinta del Jobs Act?

Finalmente arrivano dall’Inps alcune buone notizie, o almeno così sono sembrate in prima battuta lunedì pomeriggio quando i dati hanno cominciato a rimbalzare dalle agenzie alle tivu ai siti internet. Stiamo parlando di nuove assunzioni in Italia per un totale di 319.873, cifra di tutto rispetto e alla quale non eravamo più abituati da tempo. Anzi, l’opinione pubblica quasi si era rassegnata a ricevere di volta in volta notizie sempre più «nere», come se il nostro Paese fosse destinato a non uscire più dalla spirale di chiusura di aziende, fallimenti, disoccupazione, povertà crescente. È recente la diffusione dei dati Istat riferiti all’intero campione di occupati e disoccupati e riguardanti il mese di marzo, con un livello di occupazione addirittura in calo dello 0,1% e con un tasso generale di persone che lavorano fermo al 55,5% (quando altri paesi, specie nel nord Europa, arrivano a ben oltre il 60 e più per cento) e un livello di disoccupazione ulteriormente in aumento dello 0,5% rispetto a un anno prima. Il nostro 13% di senza lavoro è un dato molto pesante, soprattutto perché nasconde percentuali dimezzate al Nord e di oltre il 20 o addirittura il 25% nelle regioni del Sud.

Parte il Jobs Act e schizzano i «tempi indeterminati». Vediamo quindi cosa ha comunicato l’Inps. Intanto che nel primo trimestre del 2015 i nuovi rapporti di lavoro attivati sono stati 1 milione e 330mila mentre quelli cessati sono stati 1 milione e 12mila per un saldo finale, già ricordato, di 319.873 nuove assunzioni. Rispetto allo scorso anno si tratta di un aumento del + 138% perché nel 2014 lo stesso saldo positivo si era fermato a 134.217 unità. Di questo 1,33 milioni di nuove assunzioni (da cui vanno dedotte le cessazioni, come spiegato sopra) ben 470mila sono a tempo indeterminato e di queste hanno usufruito dell’esonero contributivo ben 206.786 nuovi contratti stipulati a tempo indeterminato. Sempre sul totale dei nuovi assunti, 61.184 sono trasformazioni di contratti a termine. Risulta dalla nota dell’Inps che il mese di più elevate assunzioni sia stato marzo, come era lecito attendersi visto che prendeva il via il Jobs Act, con 115.317 nuovi contratti. Interessante anche il dato sulla retribuzione media rilevata dall’Inps che è di 1.859 euro lordi mensili.

Solo i dati Istat diranno se il lavoro aumenta davvero. Il problema a questo punto è cercare di «entrare» in queste cifre per comprendere se sono davvero positive. Per l’economista dell’università di Bari, prof. Gianfranco Viesti «forse è presto per brindare, ma comunque dobbiamo felicitarci. Che ci sia un lieve miglioramento delle condizioni economiche generali mi pare evidente. Sappiamo che tale miglioramento è principalmente indotto da fattori esterni all’Italia, quali l’immissione di denaro da parte della Bce nel sistema, il calo del petrolio e del rapporto euro-dollaro. Tuttavia per avere la conferma che gli effetti della prima timida ripresina in corso si ripercuotano davvero sul mercato del lavoro dobbiamo attendere i dati dell’Istat. Per un insieme di fattori tecnici, solo questi ultimi ci diranno se la gente effettivamente lavora di più rispetto al passato». Secondo Viesti, inoltre, «è logico attendersi che ci sia un aumento dei contratti a tempo indeterminato sia perché le nuove regole introdotte mettono gli imprenditori in una condizione di maggiore tranquillità nelle assunzioni; sia per gli sgravi contributivi che sono un buon motivo per adottare il Jobs Act». Alla domanda che tutti si pongono, cioè cosa dovremo vedere per poter dire che «siamo fuori dal tunnel», l’economista risponde che «la strada da percorrere per recuperare i milioni di posti persi negli ultimi cinque anni è ancora molto lunga. Ci vorranno mesi, se non anni. Inoltre dobbiamo stare attenti perché questi dati freschi possono essere strattonati nelle polemiche politiche».

Sullo sfondo rimane la «questione meridionale». Più o meno dello stesso parere è anche il sociologo Giuseppe Roma, senior advisor della Fondazione Censis. «La prudenza è d’obbligo – dichiara – in quanto debbo rilevare la diversa metodologia tra Inps e Istat nella raccolta e nel trattamento dei dati. Le conferme positive, che tutti ci auguriamo, dovranno venire dall’Istat, e speriamo che arrivino presto». Riconosce che questi dati positivi sono in larga misura da ascrivere all’avvio del Jobs Act: «Indubbiamente la nuova legge consente alle imprese di guardare con una certa tranquillità a un impiego di medio termine delle risorse lavorative. Offre vantaggi sul cuneo fiscale e lascia aperte le strade per future conferme. Piuttosto starei attento alle dinamiche Nord-Sud Italia. Perché lì sta ancora il problema di fondo del Paese». «Nel Nord – sottolinea -, lo dicono le cifre e le previsioni, l’export sta aiutando una larga fetta di imprese, specie quelle più internazionalizzate. Nelle regioni più produttive del Paese troviamo addirittura la massima densità di occupati stranieri, con tassi di disoccupazione contenuti e che risultano nella media rispetto alle migliori aree produttive europee. Invece il Centro-Sud sembra rimanere nel suo stato di grande difficoltà lavorativa. Ancora una volta, quindi, la questione meridionale torna a imporsi come grande questione del Paese, e anzi, con il Jobs Act ormai avviato potrebbe farsi ancora più marcata la differenza con il resto d’Italia».