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EMANUELE ROSSI: Le ragioni del «no»

di Emanuele RossiOrdinario di Diritto costituzionale alla Scuola Superiore Sant’Anna di PisaDi fronte al quesito referendario cui ognuno è chiamato a rispondere, credo che la prima domanda che si dovrebbe porre ogni persona che voglia esercitare con responsabilità quel voto sia di chiedersi in base a quale criterio decidere se votare «sì» o «no». Non è una domanda scontata: il quesito riguarda infatti una legge di revisione costituzionale che tocca oltre cinquanta articoli, su centotrentanove, della Costituzione italiana; articoli, per di più, che disciplinano argomenti assai diversi tra loro (dalla forma di governo, e cioè dai rapporti tra gli organi di vertice dell’ordinamento, alla forma di Stato, e quindi alla ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni; dalla regolazione degli organi di garanzia alla modifica della stessa procedura per riformare la Costituzione, ed altri ancora). Non solo: ma si tratta di previsioni che presentano un alto tasso di difficoltà nella loro stessa comprensione.

Ed allora, perché il nostro costituente ha previsto che si potesse richiedere un referendum siffatto? O per dirla in altro modo, in base a cosa dire «sì» o «no» a questa riforma approvata dal Parlamento nella scorsa legislatura?

A me pare che chi si ponga seriamente e responsabilmente davanti al quesito referendario (non cioè chi decida sulla base di mere appartenenze politiche o partitiche) debba decidere, in primo luogo, sulla base del metodo con il quale questa riforma è stata approvata: se cioè il percorso politico e legislativo che è stato seguito è da condividere ed approvare o viceversa è da respingere.

Se questo è il criterio, mi pare di sufficiente evidenza che la legge costituzionale in questione debba essere respinta: il metodo seguito dalla maggioranza che l’ha approvata lascia profondamente insoddisfatti coloro che hanno a cuore il valore della Costituzione come patto condiviso e insieme di regole fondamentali che disciplinano la lotta politica e non ne sono, al contrario, strumento di realizzazione. La riforma è stata infatti concepita ed è stata tutta condotta, fino al suo esito finale, come una partita tutta interna alla maggioranza di governo, mediante accordi e compromessi (talvolta anche faticosi) al proprio interno, e senza sforzi effettivi di ricerca di un consenso più ampio sui suoi contenuti.

Se vincessero i «sì», ciò significherebbe avallare il metodo seguito: con la conseguenza, per il futuro, di una perdita evidente di valore della Carta costituzionale, e la legittimità per le nuove maggioranze di fare altrettanto, magari nelle parti della Costituzione non toccate dalla presente riforma. Ed allora nulla potrebbe impedire in un domani anche prossimo che la maggioranza parlamentare possa modificare anche gli articoli che stabiliscono principi e diritti (la nostra Costituzione, lo ricordo, non differenzia le procedure a seconda delle parti che si intendono modificare), quali ad esempio il principio della famiglia come società fondata sul matrimonio, o i diritti dei lavoratori, o la disciplina dei partiti politici, e così via.

Né vale l’argomento, utilizzato da chi ha approvato la riforma, che anche nel 2001 l’allora maggioranza di centro-sinistra approvò la modifica del Titolo V da sola. Mi pare una giustificazione che non giustifica nulla. In primo luogo è evidente a tutti che non si può prendere a giustificazione un errore per commetterne altri e più gravi (se non sulla base di una legge del taglione rozzamente applicata al piano politico-istituzionale). In secondo luogo occorre ricordare che la riforma del 2001 (che pure, a mio parere, è stato grave errore approvare a maggioranza) era assai limitata rispetto a quella attuale, ed inoltre che riprendeva una proposta che era stata votata (anche dal centro-destra) in sede di Commissione bicamerale D’Alema, e che andava nel senso, a parole da tutti auspicato, del rafforzamento delle autonomie territoriali.

Se dunque si guarda il metodo con cui si è giunti alla riforma, e se sulla base di questo ognuno deve decidere, la mia opinione è che non si possa che votare «no». Convinzione rafforzata se si analizza il merito della riforma, nella quale si mescolano soluzioni sbagliate rispetto agli scopi (talvolta condivisibili) che si vorrebbero perseguire (ad es., il Senato «federale») con soluzioni che rischiano di compromettere, assai più di quanto non avvenga ora, il funzionamento di fondamentali organi costituzionali (ad es., il procedimento legislativo); ed ancora previsioni propagandistiche prive di reale efficacia se prese oggettivamente, e potenzialmente pericolose se interpretate in modo estensivo (la devolution) con previsioni che diminuiscono complessivamente il ruolo di equilibrio garantito da organi di garanzia (Presidente della Repubblica, Consiglio Superiore della Magistratura, Corte Costituzionale).

Cancellare questa riforma è a mio parere fondamentale perché la Costituzione possa essere, ora e nel futuro, la casa di tutti.

Il sito del Comitato per il no