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Il dolore e le sue cure: i sì e i no della Chiesa

di Riccardo Bigi«Il grande mistero della sofferenza e della morte porta dentro di sé una serie di interrogativi su cui è facile disorientarsi. Temi come l’eutanasia, l’accanimento terapeutico, le cure palliative sono cose molto diverse, che spesso vengono confuse nel pensiero comune». Il cardinale Javier Lozano Barragan, presidente del Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute, è intervenuto giovedì scorso a Firenze al convegno nel cinquantesimo della morte di don Carlo Gnocchi. Nella sua relazione, ha svolto un’ampia riflessione sul dolore, sulla sofferenza, sulla morte. Temi che si trascinano dietro una grande scia di domande.

Oggi si parla molto di terapie lenitive del dolore: le cosiddette «cure palliative», che non guariscono la malattia ma diminuiscono la sofferenza. La Chiesa cosa ne pensa?

«La Chiesa è assolutamente d’accordo con tutto ciò che può alleviare il dolore. L’uomo non potrà mai eliminare dal mondo la sofferenza: e come cristiani, dobbiamo ricordare che anche la sofferenza ha un significato. Questo però non toglie che siamo chiamati anche a offrire sollievo e solidarietà a chi soffre. Gesù ci ha lasciato un esempio chiaro: lui stesso non ha rinunciato a guarire quanti si trovava davanti. La vera compassione, che Gesù ci ha insegnato, deve spingere a favorire la guarigione del paziente, o almeno ad alleviare la sua sofferenza».

Ed è qui che intervengono le «cure palliative».

«Quando la malattia non è più curabile, è doveroso evitare ogni forma di ostinazione o accanimento terapeutico, ma diventano anche necessarie quelle “cure palliative” che, come afferma l’enciclica Evangelium vitae, sono “destinate a rendere più sopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia e ad assicurare al tempo stesso al paziente un adeguato accompagnamento”».

C’è chi propone l’eutanasia proprio come forma estrema di carità, al fine di evitare inutili sofferenze. Cosa risponde?

«Eutanasia è ogni azione o omissione che provoca la morte di una persona disabile o gravemente ammalata: è moralmente inaccettabile. Anche se viene fatta allo scopo di porre fine al dolore, costituisce un atto gravemente contrario alla dignità della persona umana e a Dio Creatore».

A volte però ci sono delle situazioni in cui tenere artificialmente in vita una persona, attraverso la tecnologia medica, appare eccessivo.

«È qui che si deve distinguere bene. La compassione, dicevamo, ci spinge a favorire la guarigione: al tempo stesso però essa aiuta a fermarsi quando nessuna azione risulta ormai utile a tale fine. Il termine accanimento terapeutico definisce ogni trattamento inefficace o chiaramente sproporzionato che si dà a un paziente terminale. Il rifiuto dell’accanimento terapeutico, pertanto, non è un rifiuto del paziente e della sua vita: è piuttosto espressione del rispetto che si deve al paziente. È proprio per questo senso di amorevole rispetto che dobbiamo usare tutte le attenzioni possibili per diminuire le sofferenze e favorire, nell’ultima parte dell’esistenza terrena, un vissuto per quanto possibile sereno».

Oggi si parla molto anche del «testamento biologico», attraverso cui le persone potrebbero dichiarare anticipatamente la propria volontà in materia di trattamento medico nel caso di malattie gravi. Cosa ne pensa?

«Il testamento biologico va bene se serve ad evitare l’accanimento terapeutico, ma non è più accettabile se conduce all’eutanasia».

Al di là di tutto questo, resta il grande mistero del dolore, al quale la scienza e la tecnica non potranno mai dare risposta.

«L’unico modo per decifrare l’enigma del dolore e della sofferenza è la via dell’amore. Un amore capace di trasformare la morte in affermazione gioiosa, in vita. Il mistero non è oscurità, ma chiarezza abbagliante: la luce che abbaglia ci costringe a chiudere gli occhi, come quando si guarda il sole. Solo in questo eccesso di luminosità possiamo intravedere ciò che è la sofferenza. Inoltre, il mistero cristiano non è solo qualcosa che si contempla, bensì che si sperimenta. Solo sperimentando il mistero, ci si può addentrare nella sua comprensione. Solo vivendo il mistero della sofferenza cristiana si può comprendere un po’ il significato della sofferenza e, come dice Giovanni Paolo II nella Salvifici doloris, trascenderla e superarla».

Il convegnoDon Carlo Gnocchi dedicò la sua vita al sostegno delle persone fragili, dei sofferenti, dei mutilati, di tutti quei bambini e ragazzi vittime della guerra e della malattia, abbandonati dalla società. Lui li prese con sè, li fece crescere e diventare parte integrante di quella società che li rifiutava, tanto da meritarsi il titolo di «padre dei mutilatini». La fondazione che porta il suo nome e che ha sede a Milano lavora per realizzare il sogno di don Gnocchi: «Di potermi dedicare a un’opera di Carità, quale che sia, o meglio quale Dio me la vorrà indicare. Desidero e prego dal Signore una cosa sola: servire per tutta la vita i suoi poveri. Ecco la mia “carriera”…». E a cinquant’anni dalla morte di don Carlo, in tanti hanno partecipato al congresso internazionale organizzato a Firenze dalla sua fondazione, sul tema «fragilità, progetti e speranze nel terzo millennio». «Il nostro obiettivo – ha detto il presidente della Fondazione, monsignor Angelo Bazzari – è mettere l’universo della sofferenza e del dolore sotto la lente di ingrandimento, per indagarlo con attenzione penetrante nell’intento di inventare nuovi approcci e nuove vie per affrontarlo e contenerlo. Il progetto di don Gnocchi guardava al dolore e lo cercava ovunque si trovasse. A cinquant’anni dalla sua morte, è questa la forza dirompente del suo messaggio che la Fondazione rilancia da Firenze, e da ciascuno dei suoi 28 Centri in Italia, ai cuori della gente». Fragilità sociale, fragilità sanitaria, fragilità psicologica sono stati i temi affrontati dai congressisti, esperti in varie materie provenienti da tutto il mondo. Vito Mancuso, teologo all’Università Vita e Salute del San Raffaele di Milano, ha parlato della dimensione antropologica della sofferenza: «Simone Weil parlava di “disagio dell’intelligenza credente” di fronte al dolore», ha spiegato. «Il cristianesimo è una filosofia del bene, dell’amore, come ci ha ricordato il Papa nella recente enciclica. L’origine del male fisico rientra nella dimensione che fin dalla notte dei tempi ha visto l’uomo evolversi e progredire. Tutto ciò avviene grazie alla guida di un’entità più alta, che ha fatto in modo che l’uomo fosse un fascio di “relazioni ordinate”: il concetto di salute deriva da qui. Quando questo ordine si rompe, e lo fa in modo spesso irrazionale o imprevedibile, noi soffriamo».

Monsignor Gianni Colzani, docente della Pontificia Università Urbaniana di Roma, ha infine esplorato la dimensione teologica della sofferenza: «Nel mondo di oggi la sofferenza è considerata una realtà marginale, da nascondere, a causa dell’incapacità della società di integrare e riconoscere il dolore: sappiamo rimuoverlo, isolarlo, ma non viverlo. Serve una cultura della vita diversa, capace di rendere ragione a chi gioisce, ma anche a chi soffre. Questo è certamente un problema esistenziale e sociale, spesso dai risvolti drammatici come nel caso del dolore innocente, ma è anche una questione ecclesiale e teologica. Giobbe ci ricorda che chi soffre non può fare a meno di alzare il suo lamento fino a Dio. Il Vangelo della Croce presenta un Gesù Cristo sofferente che fa del suo dolore e soffrire un atto di libertà, di solidarietà e di fede. Ci mette di fronte a una sofferenza non più frutto del male e del peccato, ma rivivificata dall’amore per tutti gli uomini».

In Toscana, la Fondazione Don Gnocchi è presente a Pozzolatico (Firenze) con il centro di riabilitazione «Santa Maria degli Ulivi», a Marina di Massa con il centro di riabilitazione «Santa Maria alla Pineta», a Colle Val d’Elsa con il centro «Santa Maria alle Grazie» e a Fivizzano, con il polo specialistico all’interno dell’ospedale S. Antonio Abate.Manuela Plastina Gli interventi di D’Agostino e PezzottaIl tema delle sofferenze e della fragilità umana fanno rimbalzare dal convegno ecclesiale nazionale di Verona al congresso di Firenze quello dell’eutanasia e del dolore. «Dobbiamo preoccuparci quando l’eutanasia diventa una fredda prassi, come in Olanda e in altri paesi del Nord Europa» ha detto il presidente del comitato nazionale di bioetica Francesco D’Agostino. «Di fronte a un uomo che soffre – ha proseguito D’Agostino – le categorie ideologiche e/o le divisioni fra laici e cattolici non esistono. Conta solo la capacità di curare l’uomo sofferente nel miglior modo possibile. Io condivido il paradigma “personalistico”, che in ultima analisi vede nel male una possibilità di bene, proprio perché considera la persona nella sua totalità e non come un semplice insieme di sensazioni. Si tratta di un approccio ben diverso rispetto alla prospettiva utilitaristica, che considera invece la sofferenza come una negatività assoluta e insanabile, da combattere con attenzione al rapporto costi-benefici, contemplando anche il ricorso all’eutanasia nei casi estremi e insanabili». Savino Pezzotta, ex segretario generale della Cisl e attuale presidente della fondazione Tarantelli, si è soffermato sulla dimensione sociale della sofferenza: «Oggi abbiamo beni materiali e immateriali in enorme quantità, che nessuna delle generazioni precedenti ha avuto. L’uomo si sente spesso onnipotente e in ogni momento viene rappresentato con l’immagine deformata di bellezza, successo, valenza puramente economica e ricchezza materiale. In questa visione utilitaristica la sofferenza viene spesso negata e occultata. Ciò non vuol dire che non esista anche da un punto di vista sociale: la prima fragilità è quella del mondo, con le sue guerre e conflitti, poi c’è la debolezza dell’economia mondiale che nonostante il progresso economico e tecnologico non riesce ancora a evitare milioni di morti per fame». «A livello italiano – ha proseguito Pezzotta – esistono molte sofferenze: da quella dei meno abbienti, al drammatico calo demografico; dalla poca attenzione per le famiglie numerose, agli infortuni sul lavoro; dalla non autosufficienza di tantissimi anziani, al lavoro nero. Per rispondere serve una nuova progettazione dell’agire sociale e politico in grado di creare luoghi dove abili e non abili possano incontrarsi e aiutarsi. Tutto ciò si realizza creando una nuova economia “mista”, non limitata al dualismo pubblico-privato, ma aperta anche alle straordinarie potenzialità del sociale e del non profit».Manuela Plastina Cosa dice il Catechismo2277. Qualunque ne siano i motivi e i mezzi, l’eutanasia diretta consiste nel mettere fine alla vita di persone handicappate, ammalate o prossime alla morte. Essa è moralmente inaccettabile. Così un’azione oppure un’omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore, costituisce un’uccisione gravemente contraria alla dignità della persona umana e al rispetto del Dio vivente, suo Creatore. L’errore di giudizio nel quale si può essere incorsi in buona fede, non muta la natura di quest’atto omicida, sempre da condannare e da escludere.

2278. L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’«accanimento terapeutico». Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente.

2279. Anche se la morte è considerata imminente, le cure che d’ordinario sono dovute ad una persona ammalata non possono essere legittimamente interrotte. L’uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile. Le cure palliative costituiscono una forma privilegiata della carità disinteressata. A questo titolo devono essere incoraggiate.Dal Catechismo della Chiesa Cattolica