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In Italia 1.251 luogo di culto islamico: un panorama molto variegato

Cambiano facilmente di indirizzo, se ne aprono continuamente di nuove,  alcune invece chiudono perché molti membri delle comunità che le animavano, sono ritornati nei paesi di origine. Si mimetizzano. Operano spesso nella clandestinità. Le «moschee» e i luoghi di culto islamico in Italia presentano un panorama estremamente fluido, impossibile da quantificare e mappare, privo purtroppo di una normativa quadro nazionale.

Secondo gli ultimissimi dati aggiornati al 31 agosto 2016 acquisiti dalla Polizia di Stato e in possesso  del Ministero dell’Interno, in Italia si contano 4 moschee906 luoghi di culto e 341 associazioni per un totale di 1.251.

Il primato della maggiore concentrazione lo detiene la Lombardia con 227 luoghi  di culto. Seguono l’Emilia Romagna (196); il Veneto (127); la Sicilia (89) e subito dopo il Lazio (71). Oltre ad essere un panorama in continuo divenire, il quadro è estremamente complesso perché presenta caratteristiche di costruzione molto diverse e le differenze sono sostanziali.

Le moschee. Secondo i dati del Ministero dell’Interno, le moschee ufficiali in Italia sono 4 e sono quelle di Ravenna, Roma, Colle Val D’Elsa, Segrate Milano. Altre indagini ne aggiungono altre due, quelle di Catania e Brescia, a dimostrazione di quanto siano difficili le rilevazioni in questo campo. Per moschea – spiega la sociologa Maria Bombardieri, esperta di Islam italiano – si intende  quella struttura architettonica costruita ad hoc e completa di cupola e minareto. E’ visibilmente riconoscibile nello spazio pubblico come presenza  di un luogo di culto dei musulmani.

Ci sono poi le «musalla»: chiamate così in lingua araba, sono semplicemente delle sale di preghiera. Spazi, cioè, adibiti a luogo di culto dalle comunità islamiche dove oltre alla preghiera, vengono svolte anche altre attività di tipo culturale e di insegnamento. Si riconoscono perché solitamente c’è una targa posta al di fuori, in arabo  e in italiano, in cui c’è scritto «centro islamico» oppure «sala di preghiera» con il nome. La maggior parte degli ambienti di culto musulmano che abbiamo in Italia sono delle musalla. Sono maggiormente presenti nei piccoli paesi e frequentate per lo più da comunità etniche.

C’è di tutto: sottoscala, magazzini, sale dei palazzi che di solito sono adibite per le riunioni condominiali, negozi, addirittura supermercati in disuso.

Spesso la comunità non si può permettere di pagare qualcuno che a tempo pieno possa svolgere la funzione spirituale, religiosa e cultuale. Allora vengono individuate più figure di riferimento che guidano la preghiera e che almeno il venerdì tengono la khutba, il sermone. Possono essere definiti gli  «imam fai-da-te»: persone di buona volontà, che assumono questo ruolo, lo svolgono nella loro comunità di riferimento ma non hanno percorsi di studi religiosi o licenza teologica. Si improvvisano a farlo, magari seguendo anche dei corsi on-line.

Più strutturato rispetto alla musalla è il «centro islamico». Si tratta di una struttura con più ambienti in cui vengono organizzate più attività. E’ una realtà ben visibile e riconosciuta a livello comunitario, stringe relazioni tra le varie leadership islamiche e le autorità locali religiose e civili della città. Rispetto alla moschea, il centro islamico non ha la struttura architettonica completa di cupola e minareto ma ogni grande città d’Italia ha un centro islamico riconosciuto.  Il centro islamico ha un imam che viene pagato dalla comunità o da qualcuno all’esterno. In genere si tratta di una persona che svolge la funzione di guida religiosa. Ha sempre alle spalle un percorso teologico e quindi una formazione religiosa solida, sebbene possa appartenere a diverse scuole giuridiche.

Nel panorama vanno infine aggiunte le «associazioni culturali islamiche» che non sempre hanno un ambiente di culto perché sono associazioni finalizzate ad attività e incontri di tipo culturale, tra cui per esempio l’insegnamento dell’arabo.

Il quadro legislativo. Nel nostro paese – spiega Alessandro Pertici dell’Osservatorio Giuridico della Cei – le comunità islamiche, non avendo un riconoscimento come enti di culto in base alla legge sui culti ammessi , operano sulla base del diritto comune come semplici associazioni o cooperative, godendo della garanzia di non discriminazione di cui all’art. 20 della Costituzione. Questa condizione però non consente loro di aprire o gestire pubblicamente un luogo di culto, anche di modeste dimensioni, perché questo tipo di attività può essere legittimamente perseguito solo da un soggetto riconosciuto come ente di culto».

E’ la classica situazione del «gatto che si morde la coda», «dando luogo – conferma l’esperto – a un impasse normativo che anche la recente giurisprudenza costituzionale non sembra in grado di superare».

Il quadro normativo esistente è estremamente povero ma ricco di «controversie che vedono contrapposti i politici, le comunità islamiche e le autorità locali per quel che concerne l’emanazione di una concessione edilizia per la costruzione di una moschea». La soluzione in questi casi è sempre demandata ai tribunali amministrativi regionali.

Il punto è molto semplice da stilare: c’è la Legge della Regione Lombardia del 3 febbraio 2015, n. 2, che è stata oggetto d’esame di recente della Corte costituzionale (sentenza n. 63 del 2016), che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni. Ci sono le nuove misure approvate il 5 aprile scorso dal Consiglio regionale del Veneto (legge n. 12/2016 di Modifica della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11) anche queste impugnate dal governo innanzi alla Corte Costituzionale. E ancor più recente  l’approvazione in Liguria (27 settembre scorso) della legge n. 23/2016 recante «Modifiche alla legge regionale 24 gennaio 1985 numero 4 (Disciplina urbanistica dei servizi religiosi)».

«Si tratta – conclude la Bombardieri – di un fenomeno che esiste, ma viene gestito con un passo in avanti e tre indietro; con iter estenuanti che incoraggiano la clandestinità e la sfiducia in un sistema amministrativo e politico che segue più il consenso elettorale che l’esigenza delle comunità di minoranza».

Paolo Naso coordina il Consiglio per le relazioni con l’Islam istituito presso il Ministero dell’Interno. Invoca subito «l’assoluta esigenza di tracciabilità e trasparenza dei fondi». E poi aggiunge: «i locali di culto non sono soltanto i luoghi fisici della preghiera del venerdì. Per una comunità di minoranza in massima parte composta da immigrati, sono luoghi fondamentali di ricostruzione della propria identità, nei quali è possibile curare le ferite del percorso migratorio. Sono i luoghi del sapere, della conoscenza, dell’aggregazione, della socialità, del divertimento. Spazi in cui hai un riconoscimento sociale che la società ti nega. Luoghi essenziali e strategici dove gli imam, se adeguatamente formati, diventano vettori di percorsi di interazione e integrazione».