Italia

Istat: la popolazione italiana diminuisce e invecchia. Nel 2015 meno nascite

Maria, Anna, Francesca: tre generazioni di donne italiane assunte come «espediente narrativo» dal presidente dell’Istat, Giorgio Alleva, per illustrare 90 anni di trasformazioni della società italiana durante la presentazione del «Rapporto annuale 2016 – La situazione del Paese». L’evento si è svolto questa mattina, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nella Sala della Regina di Palazzo Montecitorio a Roma. Il Rapporto annuale dell’Istat, giunto alla ventiquattresima edizione, sviluppa in particolare una lettura attraverso il tema delle generazioni, «evidenziandone gli aspetti di complementarità oltre che di conflittualità, e ampliando la prospettiva dagli individui ai soggetti sociali e agli attori economici». Il tema delle generazioni si presta inoltre a confronti retrospettivi, e contribuisce così a sviluppare «quella più ampia riflessione sulle trasformazioni del Paese», che l’Istituto nazionale di statistica compie dalla sua fondazione. Simone Baldelli, vice presidente della Camera, nel suo saluto iniziale ha sottolineato il ruolo dell’Istat, con la sua «capacità di interpretare i numeri» e i mutamenti socio-economici «in un Paese in cui sono molti a dare i numeri senza saperli comprendere». Baldelli ha sottolineato «il valore scientifico» delle indagini Istat che è sempre al passo con i tempi: «Novant’anni – ha concluso Baldelli – e non sentirli».

Sempre più vecchi. La ricerca ripercorre la storia d’Italia e delle sue trasformazioni sociali ed economiche. Al 1° gennaio 2016 – si legge nel report – si stimano 60,7 milioni di residenti (-139mila rispetto al 2015) mentre gli over64 sono 161,1 ogni 100 giovani sotto i 15 anni. L’Italia, quindi, insieme a Giappone e Germania, è uno dei Paesi più invecchiati del mondo. Diminuiscono anche le nascite, che nel 2015 sono state 488mila (-15 rispetto al 2014), e la fecondità cala per il quinto anno consecutivo (1,35 figli per donna); aumentano invece i decessi: 653mila (+54mila). Novanta anni fa, nel 1926, la situazione demografica era diversa. I residenti tra il 1926 e il 1952 passavano da 39 a 47,5 milioni, per la forte riduzione della mortalità e per la natalità ancora alta, e la vita media aumentava di circa 15 anni, passando da 52,1 a 67,9 anni per le donne e da 49,3 a 63,9 per gli uomini. Dopo la seconda guerra mondiale la popolazione cresceva ancora; le nascite superavano il milione nel 1964, e con il baby boom il numero medio di figli per donna passava da 2,3 dell’inizio degli anni Cinquanta a 2,70 del 1964. La crescita demografica rallentava a partire dalla metà degli anni Settanta, infatti al Censimento del 2001 i residenti erano poco meno di 57 milioni (erano 56,5 nel 1981). Dal 2000 la popolazione è cresciuta di nuovo, ma grazie all’immigrazione dall’estero. A gennaio 2016 i residenti italiani sono 55,6 milioni, mentre i cittadini stranieri sono 5,54 milioni (cioè l’8,3% del totale).

La vita si allunga, tanto che su 100mila residenti ci sono 31,4 persone di oltre 100 anni, perlopiù donne (83,8% al 1° gennaio 2015), e tra questi il 4,6% supera i 105 anni. Nel resto d’Europa più centenari e over100 si trovano solo in Spagna e Francia (33,3 e 368 persone per 100mila residenti). Sono però meno numerose le nuove generazioni. Infatti meno del 25% della popolazione italiana è sotto i 24 anni, una quota dimezzata tra il 1926 e il 2016. La presenza di ragazzi stranieri immigrati o nati in Italia ha bilanciato in parte quello che l’Istat chiama il «degiovanimento», cioè la progressiva diminuzione delle nuove generazioni per il calo delle nascite. Dal 1993 al 2014 in Italia sono nati quasi 971mila bambini stranieri, con un trend di crescita invertito solo negli ultimi due anni. Ai ragazzi nati in Italia (il 72,7% degli stranieri sotto i 18 anni, si aggiungono i giovanissimi arrivati insieme ai genitori o per congiungimento familiari). Tra gli stranieri sotto i 18 anni circa il 38% si sente italiano, il 33% si sente straniero, il 29% indeciso. Questa «sospensione dell’identità» è una caratteristica che interessa un numero consistente di ragazzi con background migratorio che vivono in Italia.

Matrimonio in declino. Nel 2015 il 70,1% dei ragazzi tra i 25 e i 29 anni vive ancora in famiglia, contro il 54,7% delle loro coetanee. Si tratta di percentuali più alte rispetto a quelle di 20 anni prima (62,8% e 39,8%), e questa permanenza è dovuta a diversi motivi, tra cui l’aumento della scolarizzazione e il prolungarsi della formazione, le difficoltà a entrare nel mondo del lavoro e la precarietà, la difficoltà a trovare un’abitazione. Tra le generazioni più recenti, il matrimonio è in declino in quanto posticipato verso età più mature. Nel 2014 l’età al primo matrimonio è di 34,3 anni per gli sposi e 31,3 per le spose. La famiglia tradizionale (coppia coniugata con figli) non è più il modello dominante, e rappresenta ormai meno di un terzo delle famiglie (32,9%): altre forme familiari si fanno avanti, come le famiglie unipersonali di giovani e adulti non vedovi, che ormai sono il 7,9% della popolazione, mentre le libere unioni superano il milione. In oltre la metà dei casi si tratta di convivenze more uxorio tra partner celibi e nubili, mentre le famiglie ricostituite superano il milione.

Sempre meno figli. Oltre due terzi delle trentenni (2,7 milioni) non hanno ancora lasciato la proprio famiglia e sono diminuite di circa 41mila le donne che tra i 18 e i 30 anni si sposano per la prima volta. Continua a diminuire il numero medio di figli per donna. Subito dopo la Prima guerra mondiale – riporta la ricerca Istat – i figli per donna erano 2,5, per passare a 2 dopo il secondo dopoguerra, fino ad 1,5 figli per le donne della generazione del 1970. Il calo della fecondità recente è dovuto in gran parte al posticipo delle nascite da parte della Generazione del millennio. Il posticipo riguarda tutte le tappe del ciclo della vita. Diventavano nonne entro i 50 anni il 38,2% delle donne nate prima del 1940, contro il 30% di quelle nate all’inizio degli anni Cinquanta. Per gli uomini, diventavano nonni prima dei 60 anni il 38,7% dei nati prima del 1940 e il 33,1% tra quelli nati nel periodo 1945-49. Oggi si diventa nonni in media a 54,8 anni e i rapporti tra nonni e nipoti rimangono saldi e con un ruolo attivo dei nonni, coinvolti nell’affidamento dei nipoti fino ai 13 anni in 86,9% dei casi.

Spesa prevenzione sociale sotto la media. La spesa per prestazioni sociali è pari al 27,7% del Pil nella media dei Paesi Ue, mentre è al 28,6% in Italia. Le percentuali più alte – riporta la ricerca – sono quelle di Danimarca, Francia, Finlandia e Grecia (per tutti i paesi tra il 32,1 e il 30,3% nel 2013). I sistemi di welfare dei diversi Paesi hanno reagito in maniera diversa allo shock della crisi. Regno Unito e Svezia sono intervenuti contenendo la spesa sociale mentre Danimarca, Germania e Paesi Bassi l’hanno aumentata nel 2008 e nel 2009. L’Italia ha speso meno degli altri Paesi europei per il suo sistema di protezione sociale. Nel 2014, infatti, scrive l’Istat, la quota di persone a rischio povertà si è ridotta di 5,3 dopo i trasferimenti, mentre la riduzione media nell’Ue27 è stata di 8,9 punti. Chi ha studiato vive più a lungo, soprattutto se uomo. È questo uno dei risultati delle analisi condotte dall’Istat nel Rapporto di quest’anno, che scrive che il titolo di studio incide sulla speranza di vita, soprattutto tra gli uomini. Infatti tra gli over65 uomini e donne con un titolo di studio elevato hanno un vantaggio di 2,0 (uomini) e 1,2 (donne) anni di vita.

Le condizioni economiche della famiglia di provenienza incidono per i redditi dei figli. È quanto emerge dal Rapporto Istat 2016 sulla situazione del Paese. L’effetto più rilevante – si legge nella ricerca – è nel Regno Unito, dove le persone con almeno un genitore di professione nel livello direttivo hanno un reddito più elevato del 24% rispetto a chi ha genitori occupati in professioni manuali. Il vantaggio è più basso in Spagna (17%), in Danimarca (15%), in Italia (14%), in Francia (8%). Allo stesso modo incide il livello di istruzione dei genitori, anche se diversamente nei vari Paesi. In Italia l’influenza del titolo di studio dei genitori è molto discriminante: chi a 14 anni aveva almeno un genitore con istruzione universitaria o di scuola superiore si trova ad avere un reddito, rispettivamente, del 29 e del 26% più elevato rispetto a chi aveva genitori con livello di istruzione basso. Analoghi, ma più contenuti, gli effetti in Spagna, dove il vantaggio è del 14% per chi ha genitori con titolo di studio alto e del 16% per chi lo ha medio. Il livello in Francia e Regno Unito è di circa il 15% più alto per chi ha un genitore con laurea.

I minori sono i più colpiti dalla crisi. I minori sono il gruppo, che ha pagato di più le conseguenze della crisi per povertà e deprivazione in quanto hanno peggiorato la loro condizione anche rispetto alle generazioni più anziane. L’incidenza di povertà relativa per i minori, che si era attestata tra l’11 e il 12% tra il 1997 e il 2011, è arrivata al 19% nel 2014. Tra gli anziani, invece, che nel 1997 avevano un’incidenza di povertà 5 punti più alta di quella dei minori, c’è stato un miglioramento progressivo, proseguito fino al 2014, quando l’incidenza era di 10 punti percentuali inferiore a quella dei giovani. La zona geografica di residenza, si legge nel Rapporto, insieme al titolo di studio del capofamiglia, si può associare con il rischio di povertà. Infatti i minori del Mezzogiorno e quelli che vivono in famiglie con a capo una persona con titolo di studio basso (massimo licenza elementare) presentano un rischio di povertà relativa quattro volte superiore ai residenti nel Nord e a coloro che vivono con una persona di riferimento che ha almeno un diploma.