Italia

La marcia per la pace è dei fratelli non degli schiavi

La pace è un compito che «si attua di giorno in giorno, di mese in mese, di anno in anno con azioni concrete». È un passaggio dell’omelia del vescovo di Vicenza Beniamino Pizziol nella messa celebrata, in una cattedrale straripante di persone di tutte le età, alla conclusione della 47esima Marcia nazionale per la pace svoltasi nel capoluogo berico mercoledì scorso 31 dicembre.

Il cammino, partito dal piazzale della Vittoria a Monte Berico, della pace ha evidenziato e trasmesso innanzitutto la dimensione quotidiana, concreta e di responsabilità personale. Questa quotidianità si è intrecciata con l’altra parola chiave di tutto il percorso: fraternità, ovvero il cuore del messaggio di Papa Francesco per la 48esima Giornata mondiale di preghiera per la pace. Su queste due dimensioni si sono incrociate le diverse testimonianze che hanno ritmato il procedere delle circa duemila persone che hanno preso parte all’iniziativa. È emerso come quello della pace sia un impegno personale da vivere però insieme, come ha sottolineato con forza monsignor Luigi Bettazzi. La costruzione della pace dentro la storia chiede, infatti, al contempo scelte politiche coraggiose, e scelte personali coerenti, ogni giorno, da rinnovare, rafforzare e far crescere a partire dalla propria comunità.

È un messaggio questo che attraversa la storia, come si poteva simbolicamente cogliere dal piazzale della Vittoria all’inizio della marcia (promossa dalla Cei e dall’Ufficio nazionale per i problemi sociali e del lavoro, da Pax Christi, dall’Azione cattolica e dalla Caritas): da lì si possono vedere da un lato i monti che sono stati, cent’anni fa, teatro della Prima guerra mondiale e dall’altro la base militare americana Del Din, di recente costruzione e che ha fatto di Vicenza una delle città più militarizzate d’Europa. Questa continuità storica della violenza dice l’urgenza di fare proprio questo impegno. Si tratta di un compito che passa anche attraverso la lotta ad ogni schiavitù, come ha invitato Papa Bergoglio nel suo messaggio.

In tale prospettiva sono risuonate forti le parole del vescovo di Campobasso Giancarlo Maria Bregantini che ha invitato ad affermare tre no: «no alla paura, no alla precarietà, no al lavoro festivo», augurandosi che il 2014 sia «l’ultimo anno senza lavoro». La scelta della pace si inserisce in un discorso antropologico. Il riposo della domenica è un punto fondamentale per affermare la dignità della persona e non cadere schiavi del guadagno ad ogni costo. «Se cade la domenica – ha affermato Bregantini – cade tutto, non ci sono più regole, si liberalizza un mercato in cui il profitto diventa la legge e la schiavitù». Fermare la schiavitù è affermare la fraternità. Questo porta con sé tre sì. Sì ad essere lungimiranti. «Rischiamo di restare schiavi della paura – ha sottolineato il vescovo di Campobasso -. Solo i fratelli hanno fiducia, gli schiavi hanno paura». Sì a essere solidali: «tra fratelli ci si divide quello che c’è. La solidarietà è la risposta al poco che c’è contro la logica del ‘non mi interessa di te’». L’ultimo sì è «vivere la fraternità nel custodire il creato. In questo occorre saper «ascoltare il grido della terra in modo che questa diventi giardino e non deserto». Si tratta di responsabilità precise che vanno anche denunciate come hanno fatto nel loro intervento «I Cristiani per la pace».

Questa fraternità si alimenta con la preghiera e l’accostarsi alla Parola. È quanto, in particolare è emerso dalle parole di don Giampaolo Marta (leggi intervista) e don Gianantonio Allegri, i due preti vicentini fidei donum prigionieri in Camerun per 57 giorni la scorsa primavera. I due preti hanno anche lanciato un appello «per i popoli dell’Africa che hanno le armi ma non hanno da magiare. Bisogna dare sviluppo invece delle armi».

Questa fraternità e questa pace per crescere nella quotidianità hanno bisogno di essere educate come ha ricordato il vescovo Pizziol. Per questo è necessario ricordare che la pace «è prima di tutto una realtà trascendente». Solo capendo questa origine è possibile rompere «con il perdono la circolarità distruttiva del rispondere al male con il male». È questo il modo per «non rassegnarsi alla fatalità della guerra» e affermare il sogno che prima o poi «gli arsenali pubblici – anche a Vicenza – siano trasformati in parchi pubblici di gioco».