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Suicidi in carcere: don Grimaldi (cappellani), «una sconfitta per tutti»

Sono 23 i suicidi avvenuti in carcere nel 2017, secondo il dossier di Ristretti Orizzonti, «Morire di carcere», aggiornato al 21 giugno. Ultimo, nel momento in cui scriviamo e di cui la cronaca ha dato ampiamente riscontro, quello di Marco Prato, finito in cella per l’omicidio di Luca Varani. Nel 2016 sono stati, sempre secondo il rapporto, 45. «Quando un detenuto si suicida vuol dire che non ha trovato un motivo di speranza, è una sconfitta per tutti», dice al Sir don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane.

Don Grimaldi, sono alti i numeri dei detenuti che si suicidano. Nella sua esperienza quali sono i fattori di maggiore rischio?

«Oltre alle fragilità individuali, i suicidi sono anche legati agli ambienti dove i detenuti sono ristretti. Ci sono dei penitenziari che non sono adatti per accogliere persone con problematiche psicologiche e psichiatriche. Avvengono più suicidi in quelle strutture più abbandonate a se stesse per certi aspetti. Oggi si parla molto di sicurezza, ma come viene realizzata? Per mancanza di personale, tante volte non si riescono a organizzare nelle carceri attività che aiuterebbero a sostenere i detenuti. E sempre per poco personale, risulta difficile un controllo adeguato delle persone con patologie particolari o che vivono momenti difficili».

In cella Prato ha lasciato un messaggio per spiegare il gesto: «Non ce la faccio a reggere l’assedio mediatico che ruota attorno a questa vicenda. Io sono innocente»…

«Nel suo caso c’è stata una forte pressione mediatica che Prato non è riuscito a sopportare. Anche i media hanno delle responsabilità. Tante volte c’è un accanimento perché certi delitti fanno scalpore e aumentano le vendite di giornali e l’audience delle trasmissioni televisive. Bisognerebbe avere il coraggio di fare silenzio in questi drammi. Le persone più fragili non reggono tutto ciò».

Quanto può aiutare il volontariato per casi difficili?

«In tanti istituti c’è una bella presenza di volontari, ma in altri si fa fatica a farli entrare, benché svolgano attività a costo zero. A volte per motivi di sicurezza o per mancanza di personale, la presenza del volontariato rischia di essere mal sopportata. Certo, non dobbiamo considerare i volontari come supplenti del personale carente. Sono presenza viva di Chiesa all’interno delle carceri, e, in collaborazione con i cappellani, possono fare molto per i detenuti. Ma è raro che il volontario possa incontrare detenuti considerati difficili, perché di solito sono in isolamento. Eppure, anche il detenuto più pericoloso, se non ha dei supporti e stimoli, è maggiormente a rischio suicidio».

Quando un carcerato si ammazza è una sconfitta dello Stato, ma anche della comunità?

«Penso proprio di sì. Quando una persona si toglie la vita, vuol dire che non ha trovato intorno a sé una speranza, non è stato aiutato a vedere oltre. Stato e comunità fanno quello che possono, non dobbiamo colpevolizzare alcuno: i motivi dei suicidi sono diversi. Ci sono persone che non riescono a sopportare il peso di una condanna a trent’anni, c’è una mancanza di speranza dentro. I cappellani e i volontari che portano il Vangelo nelle carceri danno un grande aiuto per far ritrovare la speranza. Quando avvengono i suicidi, ognuno di noi si sente un po’ sconfitto, pensando che avrebbe potuto fare di più».

Cosa si può fare per evitare questa perdita di speranza?

«Nelle carceri dove c’è un’attenzione maggiore e una direzione un po’ più aperta, si vive meglio. Da un punto di vita spirituale, quando un cappellano o un volontario entra nel carcere proponendo un percorso di fede attraverso il Vangelo, l’ascolto della Parola, i Sacramenti, aiuta il detenuto a non perdere la speranza, perché c’è qualcuno che gli è vicino, non lo giudica, lo accoglie».

Come si potrebbe tutelare meglio la dignità della persona ristretta?

«L’ordinamento penitenziario ha compiuto e continua a compiere degli sforzi per migliorare le condizioni dei detenuti, ma il vero modo per dare dignità è offrire lavoro all’interno delle strutture. Un altro problema è la mancanza di risorse: la realtà del carcere è lo specchio, amplificato, della società, dove ci sono tanti tagli. Basti pensare all’assistenza sanitaria: in carcere difficilmente riesce ad andare uno specialista o comunque sono lunghissimi i tempi per una vista. C’è il rischio di non poter aiutare adeguatamente anche detenuti con patologie gravi».

Cosa può fare la Chiesa?

«La Chiesa sta facendo molto per il carcere grazie a Papa Francesco che ha sollevato la riflessione su questi problemi anche con le sue frequenti visite a penitenziari. Ora tocca a noi accogliere la sua voce e la sua sollecitazione. Il carcere in una diocesi deve essere considerato come una vera e propria parrocchia. È bello quando i vescovi organizzano attività all’interno del carcere, in prima persona, attraverso la Caritas o associazioni. Inoltre, invito i vescovi a inviare nelle carceri cappellani, maturi umanamente e spiritualmente, né anziani né giovanissimi, ma ancora nel pieno delle energie e con un’attenzione spiccata per gli ultimi. Nella mia esperienza – sono stato 23 anni cappellano a Secondigliano -, il carcere mi ha aiutato molto».

Nelle carceri ci sono tanti immigrati di altre fedi: che rapporto s’instaura?«Il cappellano è un punto di riferimento per tutti, anche per i non cattolici e i non cristiani. Tante volte noi cappellani quando vediamo detenuti islamici o di altre confessioni cristiane, ci attiviamo affinché anche i loro pastori di culto possano entrare nelle carceri».