Italia

Violenza contro le donne, ripartire dai più giovani (e non solo)

Tra i giovani italiani non c’è stato ancora un salto culturale nella percezione della gravità della violenza contro le donne. Tutt’altro. E’ l’amara constatazione messa in evidenza da un recente rapporto di WeWorld, ong che si occupa di garantire i diritti dei bambini e delle donne più vulnerabili. Il 32% dei giovani afferma che «gli episodi di violenza vanno affrontati all’interno delle mura domestiche». Ma il dato più grave è che 1 giovane su 4 (il 25%) giustifica il raptus momentaneo di violenza, legittimato dal «troppo amore», dal preconcetto che «le donne siano abili ad esasperare gli uomini» o «che gli abiti succinti siano troppo provocanti». Papa Francesco più volte si è pronunciato chiaramente contro la violenza sulle donne, una presa di posizione molto apprezzata nel mondo cattolico che lavora su questi temi. Le associazioni si sono preparate a celebrare il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Il coordinamento donne delle Acli, ad esempio, distribuisce agli associati braccialetti con la scritta «Stop alla violenza sulle donne» realizzati dagli istituti penitenziari padovani. In prima linea c’è il Gruppo Abele di Torino che, tra le tante iniziative, ha attivo un settore dedicato alle vittime. Anche la Cei finanzia uno dei loro progetti di prevenzione.

Atteggiamenti stereotipati. Non è sorpresa dai risultati della ricerca Ornella Obert, responsabile dello sportello giuridico «Progetto vittime» del Gruppo Abele: «E’ vero che tra i giovani ci sono atteggiamenti stereotipati, narcisismi e accanimenti nei confronti delle vittime. Non sempre e dovunque, ma c’è la classica immagine della ragazza che se l’è cercata. Purtroppo lo pensano anche le ragazze nei confronti delle coetanee». Obert punta il dito soprattutto sulla «scarsa efficacia» delle campagne sulla violenza di genere, che hanno lasciato un po’ fuori le giovani generazioni, rischiando invece di saturare l’opinione pubblica e non centrare l’obiettivo.

«Qualcosa è stato ottenuto ma forse le campagne hanno sensibilizzato chi era già sensibile». Perché chi vive quelle situazioni, precisa, «non si identifica, non si riconosce tumefatto in televisione o come mostro: non si è vittime tutto il giorno e non si è carnefici tutto il giorno, al di là di alcune patologiche gravissime». Si parla infatti di «ciclo della violenza», di uomini che alternano momenti di tenerezza a violenza. La violenza, si dice infatti, «non è un gesto ma una storia». «A volte non c’è malafede ma incapacità a gestire le relazioni».

I panni sporchi si lavano in casa? Molta responsabilità è dovuta anche alle famiglie (genitori e nonni), che influiscono sulla storia delle persone: «Ciò che si è vissuto e visto ha un peso – spiega Obert – e l’educazione ricevuta significa molto. Ai genitori spetta il compito di portare un esempio di relazioni positive». Il dato critico, secondo la giurista, è che oggi si è tornati ad un concetto di famiglia con «chiusura totale». «Negli ultimi anni le famiglie si sono molto chiuse. Si è rotto il patto educativo tra famiglia e scuola. I cuccioli sono intoccabili, ci si è arroccati nell’idea che il mondo esterno è un nemico da tener fuori. Se i figli non si toccano e nessuno deve entrare nella relazione genitori-figli, figurarsi nella relazione tra coniugi». L’idea che i panni sporchi si lavano in casa forse è dovuta anche ad un obiettivo mancato: «non si è arrivati a far diventare pubblico un fatto privato». E c’è un altro aspetto complesso, conosciuto solo dagli addetti ai lavori: la denuncia «fondamentale e doverosa» non deve essere l’unica strada per liberarsi dalla violenza. Perché dietro «ci sono dei figli, delle famiglie, delle proprietà e dei mutui da pagare, tutta una serie di questioni quotidiane che non vengono spazzate via da una denuncia». Servono quindi «interventi intermedi». Altrimenti, senza un sostegno pratico, tutto ciò si ripercuote negativamente sulle donne.

Cosa fare? Per contrastare la diffusione del fenomeno tra i giovani servono progetti nelle scuole «già nelle scuole materne – suggerisce l’esperta -, affrontando i temi della rabbia e dell’aggressività e della gestione delle relazioni, perché non siano di potere e prevaricazione». Si possono inoltre coinvolgere le parrucchiere, le estetiste, le forze dell’ordine, dotandole di strumenti per aiutare le vittime. Anche il mondo cattolico può fare la sua parte, nonostante esista, tra il Papa e il livello locale, «una fascia intermedia che in questi anni è stata muta». «Però ci sono parroci, parrocchie che raccolgono storie di ragazze e donne vittime di violenza. Ma bisogna passare dalla consolazione all’azione, indirizzando verso centri, luoghi e persone che consentano una prospettiva di uscita dalla violenza».