Italia

Vita dura per chi nasce a Betlemme

Le Francescane Elisabettine di Padova che gestiscono a Betlemme il Caritas Baby Hospital (e che hanno contatti con diverse realtà anche della Toscana) ci hanno inviato una lunga corrispondenza sulla difficile situazione della città che vide la nascita di Gesù. Dal lungo testo, che si intitola «Perché trattate così Betlemme?» abbiamo tratto alcuni passaggi significativi.

Il Baby Hospital è un interessante punto di osservazione per capire la realtà di Betlemme. Le difficili condizioni in cui vivono tante famiglie, specie nei villaggi, pongono i bambini in una situazione di forte rischio di malattie. La disoccupazione tocca livelli altissimi e si fa sentire sempre più con il carico di problemi a livello umano che inevitabilmente porta con sè; il marito disoccupato diventa «un figlio in più» da gestire, con un peso moltiplicato per la donna, non raramente soggetta ad una vita priva di dignità: in molti casi, sfinita dalle continue gravidanze, la donna partorisce figli deboli e bisognosi di urgenti cure mediche. Le condizioni igieniche precarie, in particolare la scarsità di acqua, rendono ancor più fragile lo stato di salute dei bambini.

Le statistiche del nostro ospedale parlano chiaro: 3.500 ammissioni in un anno e circa 30 mila bambini seguiti negli ambulatori (100 al giorno). Gli spazi di attesa sono pieni di voci, di strilli, di grida… ma sono ormai diventati stretti e affollati. Stranamente ci sono anche giorni silenziosi e troppo tranquilli: sono i giorni in cui le maggiori restrizioni alla libertà di movimento e blocchi militari impediscono l’accesso a Betlemme, e i genitori non possono accompagnare all’ospedale i loro bambini bisognosi di cure.

Trasferire un bambino è un’impresaLe situazioni più complesse da gestire sono i trasferimenti di un bambino dal Baby Hospital ad un altro ospedale, per particolari cure: il gran numero di persone coinvolte e le infinite procedure burocratiche rendono tale «operazione» una vera impresa. Una fitta rete di contatti si mette subito in moto per far sì che il trasferimento e le prestazioni mediche avvengano tempestivamente: genitori del bambino, medici, operatori sanitari e sociali, impiegati ed alcune persone che «contano» sia in Palestina che in Israele, vengono coinvolti nel trovare un posto in ospedale, nel far funzionare l’assicurazione medica (quando c’è), o per fornirla quando manca, nell’ottenere il permesso per entrare in Israele, nel trovare le ambulanze… prima quella Palestinese, e poi quella Israeliana. L’ambulanza palestinese trasporta il bambino fino al muro, al check point: qui il bambino viene trasferito nell’ambulanza israeliana che lo trasporta all’ospedale stabilito. La dottoressa Antke, tedesca, in pochi anni diventata espertissima in trasferimenti di bambini ammalati, quando vede l’ambulanza israeliana allontantanarsi verso Gerusalemme portando al sicuro un bambino di Betlemme, fa volentieri un sospiro di sollievo e lascia che i suoi occhi sorridano di gioia; un’altra vita può essere salvata! 45 euro al meseUna povertà «silenziosa», quasi muta, si aggira tra le strade di Betlemme e invade larghi strati di popolazione, colpendo soprattutto i più deboli, una povertà che ha quasi bisogno di essere scovata per essere creduta, tanto è arrivata a toccare profondamente anche la popolazione che un tempo sosteneva l’economia della città e che ora si vergogna di farsi vedere povera per le ristrettezze economiche. Come Elias, autista di grande esperienza, con 6 figli, che il mese scorso ha ricevuto 45 euro di salario, e nella cui famiglia non si è mangiato carne per un mese.

«La situazione è davvero brutta», continua a dire la gente, «non può andare peggio di così», ma se paragonata a Gaza, «visitata» fin troppo spesso dagli F16, a Betlemme si può almeno sopravvivere, anche se le incursioni dei soldati israeliani fin dentro la città sono quasi giornaliere, e suscitano tensione, reazioni, spavento e panico tra la gente umile, semplice e indifesa. Tenuta sotto perenne assedio dal muro, con la vigilanza serrata dei soldati israeliani dall’alto delle torrette grigie, la popolazione cerca di aggiustare la propria vita al sistema di restrizioni che le viene imposto. Chi può cerca di resistere e di sopportare, chi non non ce la fa, si mette in lista per lasciare il Paese, con il generoso appoggio di Israele, che non desidera altro che vedere i Palestinesi andarsene…

Qualcosa di malvagioI lavori di costruzione del muro a Betlemme si avviano alla conclusione. Come un serpente grigio, il muro stringe la città in una morsa mortale; lo constatiamo ogni giorno, da cose molto concrete. Il piano di tale costruzione ha qualcosa di malvagio e di assolutamente inumano. Le sue anse si muovono fin all’interno dei centri abitati, si snodano tra le case stesse togliendo luce e respiro… Il percorso è stato tracciato con estrema «intelligenza» e attenzione: non solo si insinua tra le case, ma anche tra i terreni in modo da ritagliare quanto più è possibile della zona verde, togliendola al Territorio Palestinese, e tutto ciò come se fosse la cosa più ovvia. Il percorso del muro fa attenzione ad includere nella parte israeliana anche le sorgenti d’acqua del Territorio Palestinese, per destinarle ai nuovi insediamenti che stanno invadendo dovunque le alture che circondano Betlemme, generalmente le zone più belle e più verdi. Umiliazione al check pointIn seguito alla costruzione del muro, tutti coloro che da Gerusalemme vengono a Betlemme, turisti, pellegrini, o stranieri… in pullman o in auto, entrano attaverso una porta: una grande per le auto ed una molto ridotta, ritagliata nel muro per i pedoni. Per le auto i controlli possono essere tollerabili. Le procedure di controllo per i Palestinesi diventano invece sempre più minuziose. Le modifiche si aggiungono alle modifiche in maniera tale da suscitare nel pedone la voglia di tornarci il meno possibile. La domenica mattina è uno dei giorni più interessanti per vedere in che cosa consiste l’umiliazione palestinese e la vendita della propria dignità per mendicare a Israele un po’ di lavoro e di pane quotidiano; la fila di coloro che attendono di varcare il check point comincia alle 4 del mattino: persone, anche anziane, in piedi per ore, con il loro misero sacchetto nero di plastica con dentro un po’ di cibo, esposti alle intemperie, incanalati pazientemente verso i controlli. E questi sono i pochi «fortunati» che ricevono il permesso di uscire da Betlemme per lavoro. Gli effetti dell’«embargo»La situazione sanitaria nell’intera Palestina ed anche in Betlemme, è estremamente critica. Da mesi, nelle istituzioni governative i dipendenti non ricevono salario ed è in atto uno sciopero selvaggio e crudele che sta privando la già provata popolazione dei servizi più essenziali, come quelli sanitari. Si cerca a mala pena di garantire qualche servizio di emergenza. Anche per i bambini non ci sono servizi che funzionino e le madri spendono ore cercando medicine e cure da un ambulatorio all’altro. Alla fine approdano al Baby Hospital, perché il Baby Hospital non manda via nessuno. I farmaci che fino a mesi fa venivano dati dai servizi governativi, ora non sono più disponibili, e chi era solito beneficiarne è rimasto «a secco»… In tanti casi di vera emergenza, alla popolazione non resta che fare il giro delle organizzazioni umanitarie a mendicare le medicine di cui non può fare a meno. Il nuovo governo che si è formato in seguito alla vittoria del partito di Hamas afferma di non avere il denaro per pagare i dipendenti, che , durante il governo del partito di Fatah venivano pagati con l’aiuto della Comunità Europea, tra cui l’Italia. I disagi per la popolazione sono ora incalcolabili e fanno accelerare impoverimento e malessere. Abituati (ed anche un po’ «viziati») ai fondi dell’Europa che puntualmente arrivavano in Palestina, i cittadini si trovano ora a subire un «embargo» che destabilizza sempre di più quella che prima era la fragile impalcatura dell’Autorità Palestinese. Neppure i bambini suscitano un pò di buon senso e di responsabilità; nessuna pietà per il loro futuro. Non pagati da mesi, anche gli insegnanti hanno fatto sciopero. Il primo giorno di scuola (nelle scuole governative) doveva essere il 2 settembre. Invece è stato il 12 novembre. Per più di due mesi la loro scuola è stata la strada, con una conseguente tensione da parte dei genitori, resi impotenti dall’obbligo dello sciopero. Una prigione a cielo apertoAl di là della difficile situazione economica, il disagio più faticoso da accettare è la mancanza di libertà, della libertà di andare a cercarsi una lavoro, di gestire la propria vita e quella della propria famiglia in maniera dignitosa ed umana. La preoccupazione per il futuro dei figli, per il lavoro che non si trova, l’instabilità politica che non dà nessuna garanzia, la paura e la tensione che non mancano mai, sono motivo di desiderare di lasciare il Paese: «Tutto è chiuso intorno a noi, dicono soprattutto i cristiani, abituati ad “un’altra Betlemme”, come possiamo vivere qui, chiusi dentro il muro, in questa “prigione a cielo aperto”, esposti a tensione, conflitti e violenza, senza le condizioni di una vita serena e pacifica che permetta di sentirci “normali”?

Questa Terra, che è Santa, è diventata oggi un miscuglio, anzi un intreccio di zone appartenenti ad Israele, e di altre appartenenti alla Palestina, zone A, B e C, ognuna con un regime diverso, per le quali la libertà di movimento è decisa solo in base agli interessi di Israele.

Quello che ci racconta Samar ci sembra perfino incredibile. Per circa cinque giorni, aveva pazientemente fatto la fila (che inizia alle 3 del mattino) per ottenere il permesso di uscire da Betlemme e recarsi al Lago di Tiberine, come ogni anno, su invito di una comunità di monaci: un po’ di relax, visite alla città

Finalmente la partenza: quattro persone in tutto, Samar e sua madre, la sorella che vive in Gerusalemme, e una delle nostre fisioterapiste, tedesca. Dopo aver passato nove check points, a metà del viaggio non possono più proseguire e vengono rispedite indietro dai militari: Samar e la madre perché vengono da «Betlemme» e non devono entrare in Israele, la sorella di Samar perché viene da Israele e non deve entrare in Palestina; anzi, i soldati si sentono in dovere di proteggerla dai Palestinesi, per il suo bene… Solo la fisioterapista potrebbe proseguire perché straniera. Come tanti altri cristiani di Betlemme, Samar manifesta tutta la sua rabbia: «Come potete proibirmi di andare a Gerusalemme? Come potete impedirmi di pregare sui Luoghi Santi?». E questo è appena l’inizio di ciò che si prevede possa avvenire, nel caso venisse creato lo Stato Palestinese.Sorelle del Baby Hospital