Lettere in redazione

«Culle per la vita», aiutano davvero?

Caro Direttore,in merito alle notizie sulla «Culla per la vita» riportate sui numeri di Toscanaoggi del 14 (Invece che la «ruota» informazione alle donne) e 28 settembre 2008(La «Culla per la vita» funziona dal 2006), desideriamo segnalare all’attenzione dei lettori che l’istituzione di «culle per la vita» presuppone che le donne non partoriscano (come hanno diritto anche quelle che vivono nel nostro Paese senza permesso di soggiorno) negli ospedali che sono obbligati a fornire tutte le prestazioni a titolo gratuito e, nei casi di non riconoscimento del neonato, con assoluta garanzia del segreto del parto. Infatti la donna (o altra persona) non può uscire dall’ospedale con il bambino non riconosciuto. C’è dunque il fondato rischio che l’istituzione delle «culle per la vita» invece di salvare i neonati abbandonati, favorisca i parti clandestini con le prevedibili conseguenze negative non solo per le partorienti ma anche per i loro nati. Francesco Santaneraindirizzo email

La prima «culla per la vita» fu istituita a Casale Monferrato nel lontano 1992. A Firenze dal febbraio 2006 funziona regolarmente presso la parrocchia di S. Remigio.

Capisco le sue perplessità, caro Santanera, ma il problema è salvare vite umane e contemporaneamente offrire alle donne in difficoltà possibilità concrete per evitare l’interruzione volontaria della gravidanza. Io credo però che, al di là di tutto, il problema da affrontare insieme, senza schemi ideologici – e questa è la difficoltà più grande – è la stessa legge 194 sia in ordine a quanto essa effettivamente stabiliva sia riguardo ai profondi mutamenti intervenuti in trent’anni nella società italiana e nella stessa tipologia delle donne che vi ricorrono.

Prima di tutto i consultori: furono istituiti con compiti ben precisi. Offrire a donne in difficoltà la possibilità di avere un colloquio che potesse aiutare, portando un contributo positivo a prevenire l’aborto e ad attivare reali sostegni alle maternità difficili. Sembra invece, che nella quasi totalità, alle donne non venga proposta alcuna alternativa all’aborto volontario: solo raramente viene presentata qualche soluzione di corretta dissuasione e così il contatto si risolve troppo spesso nel freddo e burocratico rilascio di certificato per potersi recare ad abortire. Questo dei consultori è un punto da rivedere, riportandoli alla loro funzione istitutiva.

Ma un aspetto da studiare e approfondire con grande serietà è la tipologia delle donne che ricorrono all’aborto volontario. Molte sono straniere, forse la maggioranza. Nel 2007 i casi registrati sono stati 3.307. Spesso vi sono costrette dai loro «protettori-aguzzini». In loro però è forte il senso della maternità e con un aiuto, anche economico, e con provvedimenti che le liberino si potrebbe evitare l’aborto.

Questa è la strada che va percorsa, riscoprendo quelle valenze etiche che devono essere alla base del convivere civile. Il difficile è trovare questa concordia in un’Italia subito bloccata da rigidi e preconcetti schemi ideologici, mentre in queste materie dovrebbe prevalere la ricerca comune per la soluzione migliore.