Lettere in redazione

I senza fissa dimora ridotti a «problemi»

Di recente ho visto il film «I nostri ragazzi» di Ivan De Matteo e vogtlio porre all’attenzione uno degli aspetti su cui esso invita a riflettere, quella frase tremenda detta dalla ragazza: «solo per aver fatto fuori uno stupido barbone», o qualcosa di simile. Mi pare infatti che in questa considerazione, così bassa, della vita di una persona umana, possa influire una cultura diffusa che ogni giorno addita le persone senza fissa dimora qualificandole solo come problemi da risolvere, non facendosene carico, ma semplicemente sottraendoli alla nostra vita. Talvolta si chiama «degrado» la presenza, in certe parti della città, di rom, di senza tetto, o ubriachi, ossia di esseri umani, ridotti, certo, in situazioni esistenziali degradate, ma pur sempre esseri umani, con la stessa identica dignità del più ricco degli imprenditori. Tale modo di esprimersi rischia di diminuire, nell’opinione pubblica, il valore di persone umane di quegli individui.

Penso che abbiamo tutti bisogno di «risciacquare i nostri panni» in una compassione simile a quel grande insegnamento di Madre Teresa, che vedeva nei poveri e nei derelitti dei fratelli da aiutare, da ricondurre alla loro dignità, se non addirittura, per chi crede, la presenza del Cristo sofferente. Questo è l’augurio che faccio a me per prima e a tutti noi, per creare una società più giusta ed umana.

Chiara GaspariFirenze

Sui tanti film che in questo ultimo periodo ci presentano esempi di «giovani fragili» con il loro «male di vivere» o la loro arroganza invito a rileggere l’editoriale del nostro Direttore, Andrea Fagioli, pubblicato sull’ultimo numero del settimanale, a commento del suicidio-omicidio dei due giovani a Milano. Quanto invece all’insofferenza crescente verso «emarginati» e «diversi», concordo con la nostra lettrice. Si stanno diffondendo ordinanze di sindaci che vietano l’accattonaggio nei centri storici o addirittura che confinano in zone periferiche anche i volontari che si occupano di assistere queste persone. Però una cosa è la compassione (nel senso etimologico) che un cristiano deve sempre avere e che deve muovere la sua carità verso il fratello sofferente, altro le responsabilità di chi amministra la cosa pubblica che si trova talvolta ad affrontare situazioni esplosive anche per l’ordine pubblico e deve mostrare saggezza e moderazione. Che male fa un mendicante che chiede l’elemosina ad un semaforo o all’uscita da una chiesa? Chi passa è libero di donare qualcosa o di ignorarlo, secondo quanto gli detta la sua coscienza. Ma se un’organizzazione criminosa organizzasse questo accattonaggio in modo sistematico e magari anche con modi aggressivi o utilizzando minori, un sindaco potrebbe far finta di niente? Con il rischio anche di portare le persone all’esasperazione e renderle incapaci di distinguere tra il povero vero e chi se ne approfitta? Come vede non esistono soluzioni facili per un problema complesso ed ineliminabile. Ma sul piano personale dobbiamo sforzarci di dare un nome a queste persone, di vederle come persone, tali e uguali a noi, di fermarci ad ascoltare le loro storie, di non voltare lo sguardo alle loro necessità.

Claudio Turrini