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Cristiani in fuga dal Califfato

Nel racconto di una giovane madre, la fuga da un villaggio vicino a Mosul e poi ancora dalla Piana di Ninive: «Abbiamo perso tutto: il lavoro, gli affetti, la casa. Oggi la mia casa è diventata un centro per le famiglie dei miliziani dell'Is, una specie di piccola moschea». Padre Raymond Moussalli, vicario del vescovado caldeo di Giordania, ringrazia per il milione di euro stanziato dalla Cei.

«Tutto in una notte. Tutto è finito in una notte»: lo ripete in continuazione M., singhiozzando dall’altro capo del telefono. Non vuole essere menzionata, perché dice, «ho paura che qualcuno possa fare del male a me e alla mia famiglia. Non posso fidarmi più di nessuno». Il suo racconto è quello di decine di migliaia di rifugiati iracheni, cristiani, yazidi, ma anche musulmani, in fuga dalla brutale violenza delle milizie dello Stato islamico (Is). Oggi M. si trova ad Amman, in Giordania, con i suoi tre figli, accolta dalla rete di accoglienza messa su da anni, ormai, dalla Chiesa caldea e dalle altre chiese cristiane. Il marito, invece, militare dell’esercito iracheno, ha trovato rifugio in Turchia, «per evitare che i ribelli lo uccidessero».

I ricordi la riportano ai primi di giugno quando, racconta, «siamo fuggiti dal nostro villaggio vicino Mosul in piena notte, con quel poco che siamo riusciti a portare con noi. Abbiamo trovato rifugio nei villaggi cristiani della Piana di Ninive, come Qaraqosh. Sulla strada abbiamo visto i cadaveri di un diacono, colpito nella fuga da un colpo di fucile e di un giovane cristiano in procinto di sposarsi». «Nella fuga abbiamo perso tutto: il lavoro, gli affetti, la casa. Oggi – dice con voce rotta dal pianto – la mia casa è diventata un centro per le famiglie dei miliziani dell’Is, una specie di piccola moschea». L’avanzata dell’Is non si è fermata a Mosul, ma è dilagata anche nella Piana di Ninive costringendo oltre centomila persone, tra cui M., a fuggire di nuovo, questa volta in Giordania, ad Amman. «Qui abbiamo un tetto sotto il quale dormire, abbiamo di che mangiare, ma non abbiamo soldi, lavoro per mantenerci. Come andare avanti così? Quale futuro ci aspetta?».

Non pensate di ritornare un giorno al vostro villaggio? «Tornare? E per andare dove? – risponde senza usare mezzi termini – Se decidessi di tornare potrò fidarmi ancora del mio vicino di casa musulmano? Io amo la mia terra, la mia casa, ma non c’è sicurezza e stabilità». Le notizie che giungono da Mosul non sono rassicuranti. Testimonianze dalla città parlano di donne velate, di uomini lapidati, di leggi imposte con la forza. «La comunità internazionale – denuncia M. – non ha fatto nulla per noi, il Governo centrale sta ancora organizzandosi, i curdi perseguono i loro interessi. Noi invece non abbiamo più nulla. Abbiamo perso tutto».

I bombardamenti americani? «Non so se porteranno a qualche risultato. Ciò che vedo è che la situazione peggiora di giorno in giorno. Le malattie si diffondono sempre di più a causa delle precarie condizioni igieniche e colpiscono soprattutto i bambini che già soffrono la mancanza della scuola e subiscono forti stress emotivi». «La nostra unica salvezza si chiama emigrazione. Solo all’estero potremo vivere al sicuro e tentare di ricostruirci una vita. Qui abbiamo perso tutto» dice. Ora la preoccupazione per M. è quella di ricongiungersi al marito per emigrare «ma non sarà facile» riconosce, «la situazione è catastrofica, ben peggiore di quella che descrivono i giornali».

Il racconto di M. trova ulteriore conferma nelle parole di padre Raymond Moussalli, vicario del vescovado caldeo di Giordania che da tempo si occupa delle migliaia di rifugiati cristiani nel regno hashemita, la maggior parte dei quali giunti durante le guerre settarie tra sciiti e sunniti iracheni avvenute negli ultimi anni. Il vicario spiega che dopo la proclamazione del Califfato e la presa di Mosul, «ad Amman sono arrivate oltre 1000 famiglie cristiane. Molte sono state accolte nelle chiese, qualcuna, invece, ha trovato rifugio presso dei familiari. Abbiamo anche qualche centinaio di yazidi». Il Governo hascemita ha dato loro il permesso per entrare in Giordania, ma questa, avverte padre Moussalli, «non è la loro destinazione finale». «Tutti – dice – hanno il forte desiderio di emigrare e rifarsi una vita altrove».

Nell’attesa di partire queste famiglie vengono assistite in tutto. «Riusciamo a sostenere il peso dell’assistenza grazie all’aiuto di benefattori, cristiani e non, e soprattutto di enti come la Caritas e la Pontifical Mission. La situazione al momento è difficile perché aumentano gli ingressi e abbiamo sistemato due o tre famiglie per ogni casa disponibile. La Chiesa locale le aiuta per pagare l’affitto, il cibo, i vestiti e qualunque altra cosa necessaria a vivere con dignità. Ci sono anche tanti bambini che purtroppo non possono essere inseriti a scuola, che qui in Giordania è già cominciata. Per loro abbiamo creato una sorta di ‘doposcuola’ in modo che possano recuperare nelle materie principali e magari essere inseriti gradualmente nelle classi con gli altri bambini. Sono arrivati qui che non avevano nulla se non gli abiti che portavano addosso. L’unico pensiero era e resta quello di salvare la propria vita».

Padre Moussalli accoglie con soddisfazione la notizia che la Conferenza episcopale italiana ha stanziato il 24 settembre un milione di euro dai fondi dell’8×1000 a sostegno delle comunità cristiane in Iraq, provate dalla violenza persecutoria scatenata dagli estremisti. «Siamo felici per questo dono. Ma oltre ai soldi serve aiuto per emigrare e costruirsi un futuro migliore per i loro figli. Sarebbe bello che qualche vescovo italiano potesse venire qui, in Giordania, in Libano e in Turchia, Paesi che accolgono milioni di rifugiati per vedere di persona la sofferenza di questa gente. Fino a quando dovranno versare lacrime?».