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Giordania, mons. Galantino ai rifugiati iracheni: «Perseguitati ma non dimenticati»

«Sono qui a nome di tutti i vescovi italiani per esprimervi gratitudine di fronte alla grande testimonianza di fede che ci offrite. Vi dico che siete perseguitati, ma non dimenticati; quello che possiamo fare è davvero poco, ma non verrà meno e si unisce al notevole impegno con cui il Patriarcato e la Caritas vi sostengono». Lo ha detto il segretario generale della Cei, monsignor Nunzio Galantino, incontrando i profughi iracheni in Giordania.

Accogliendo l’invito del patriarca latino, Fouad Twal, il segretario della Cei è stato in Giordania dal 6 al 9 agosto per un incontro con migliaia di profughi iracheni: promosso dalla Chiesa latina e presieduto dal patriarca di Babilonia dei caldei, Louis Raphael Sako, l’evento, riferisce il quotidiano «Avvenire», ha riunito cristiani delle diverse confessioni.

Dopo le testimonianze dei profughi, costretti dai jihadisti dell’Isis a scegliere tra la conversione all’Islam, la morte o l’esilio, e desiderosi di una nuova opportunità per ricominciare a vivere, mons. Galantino ha letto il messaggio affidatogli da Papa Francesco, nel quale il Pontefice esprime vicinanza a quanti, «perseguitati» e «oppressi dalla violenza, sono stati costretti ad abbandonare le loro case e la loro terra». In un Paese di 6 milioni e mezzo di abitanti, oggi si stimano almeno 3 milioni di profughi; latitanti restano invece i pellegrini.

«Le pagine dell’agenda di un profugo sono identiche l’una all’altra: tutte bianche, intonse e vuote, per un tempo che non ritorna». Inizia così il reportage scritto da don Ivan Maffeis, direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali (Ucs) della Cei, per Avvenire di ieri sulla visita del segretario generale della Cei, monsignor Nunzio Galantino, in Giordania. «I nostri talenti – confida un uomo al Segretario della Cei – restano sepolti, senza che ci sia offerta alcuna possibilità di valorizzare chi siamo, le nostre arti e abilità: e non è forse pure questa una lenta condanna a morte?». «L’uomo, rivolto a monsignor Nunzio Galantino – annota Maffeis -, scandisce parole che cadono in un silenzio attento e dignitoso, animato solo dalle voci dei bambini più piccoli, in braccio a giovani madri. Siamo ad Hanina, un quartiere di Amman, dove la Caritas giordana ha allestito un campo profughi nei locali della parrocchia; analoga scena si ripropone quando ci spostiamo nei centri d’accoglienza di Mar Elias, di Hashmi e di Jabal al Hamman». I profughi, ricorda Maffeis, «provengono da Mosul, Qaraqosh, Talkief e Karamles, città e villaggi della Piana di Ninive».

«Abbiamo scelto Gesù Cristo – dice un papà a don Maffeis – con la fiducia che non ci lascerà soli. Un segno della sua presenza l’abbiamo toccato con mano nell’accoglienza solidale assicurataci dalla Caritas giordana». «Non possiamo né più vogliamo tornare in Iraq – gli fa eco un amico -: le nostre chiese sono state violate, spogliate e distrutte o adibite ad altro; le nostre case sono occupate da quei vicini con i quali fino a ieri abbiamo convissuto. Quello che chiediamo è l’aiuto ad abbattere i tempi per un visto e un Paese disposto a darci l’opportunità di ricominciare». «Finché rimaniamo qui – precisa un altro – siamo condannati ogni giorno all’umiliazione di non aver risposta alle tante domande che ci pongono i nostri figli. Da un anno non frequentano alcuna scuola, rimpiangono quaderni, libri e insegnanti, con i quali costruivamo il loro futuro. Le nostre famiglie qui vivono in piccoli loculi, senza alcuna privacy, con le poche cose raccolte nella borsa della spesa». Il segretario generale della Cei, riferisce Maffeis, «ascolta, spostando rapidamente gli occhi dall’uno all’altro». Dal 2013, ricorda il direttore dell’Ufficio Cei, «gli scontri in Siria hanno riversato in Giordania un milione e 400mila profughi. Alla caduta di Mosul, il Regno hascemita ha aperto le frontiere a circa 8.000 fuggitivi».

«In un Paese di 6 milioni e mezzo di abitanti – sottolinea Maffeis -, oggi si stimano almeno 3 milioni di profughi: cifre che fanno della Giordania il primo al mondo per rapporto tra popolazione autoctona e rifugiati». «Per i profughi siriani – afferma il direttore della Caritas giordana, Wael Suleiman, nel reportage del direttore dell’Ufficio Cei – riceviamo aiuti da tutto il mondo, ma quando i perseguitati sono cristiani non arriva nulla: l’Onu ha fatto solo promesse, come i tanti ministri e rappresentanti di organizzazioni che sono passate senza poi farsi più sentire». A farsene carico sono rimasti i locali: «In tutte le chiese della Giordania la nostra gente si è tassata, raccogliendo un milione di dollari, a cui si aggiungono gli aiuti della Caritas tedesca, di quella statunitense e della Santa Sede. Se i profughi iracheni saranno costretti ad andarsene in Europa o in Australia – conclude Suleiman – perderanno la loro identità e le loro tradizioni religiose; se li aiutiamo a resistere ancora un paio d’anni, finiranno per inserirsi nel nostro tessuto sociale».