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Srebrenica: Karadzic colpevole di genocidio. Card. Puljic, «passo verso giustizia ma non placa il dolore»

«Un giudizio che segna un passo verso la giustizia ma che non riconsegna le vittime alle proprie famiglie e che non sana del tutto la malvagità della guerra. Il dolore di tante ferite non si placa solo con un giudizio». Così l’arcivescovo di Sarajevo, il cardinale Vinko Puljić, commenta al Sir la condanna a 40 anni di reclusione inflitta dal Tribunale penale internazionale dell’Aia (Tpi) all’ex-leader serbo bosniaco Radovan Karadzic, giudicato colpevole del genocidio di Srebrenica del 1995 e di altri nove altri capi di imputazione per crimini di guerra. 

«Bisogna che la giustizia faccia il suo corso – ha aggiunto il cardinale – ma occorre anche lavorare per la pace e la riconciliazione necessarie alla costruzione di uno Stato stabile dove tutte le fedi e le etnie possano tornare a convivere».

Karadzic, oltre al genocidio di Srebrenica, è stato riconosciuto personalmente colpevole, assieme a Momcilo Krajisnik, Biljana Plavsic, Nikola Koljevic e Ratko Mladic, della «impresa criminale congiunta» dell’assedio di Sarajevo, e inoltre di persecuzioni, stermini, deportazioni, uccisioni, trasferimenti forzati, attacchi contro civili, come crimini contro l’umanità e violazione delle leggi e costumi di guerra, ed è responsabile per la presa dei caschi blu come ostaggi.

È invece caduto il primo capo d’accusa per genocidio a Bratunac, Prijedor, Foca, Kljuc, Sanski Most, Vlasenica e Zvornik, poiché il collegio dei giudici non si è convinto che, nonostante i crimini commessi, ci fosse l’intenzione di sterminare parzialmente o del tutto le comunità non serbe, e quindi di commettere genocidio.

Karadzic (70 anni), che era presente oggi all’enunciazione della sentenza nell’aula del Tpi, ha diritto a presentare appello contro la condanna, al pari della procura. Il massacro di Srebrenica del luglio 1995 è la strage più sanguinosa compiuta in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Al momento dei fatti a Srebrenica – città a maggioranza musulmana assediata dalle forze serbo-bosniache e difesa da una zona di sicurezza presidiata dai Caschi blu olandesi dell’Onu – rimanevano 42mila persone, di cui 36mila rifugiati. Scarsamente armate e prive di supporto aereo, le forze Onu si rifugiarono nella vicina base di Potocari, portando con sé una parte della popolazione fuggita dalla città: i rifugiati dentro e fuori dalla base vennero però portati via dai serbo-bosniaci a bordo di autobus, e gli uomini separati dalle donne. I primi vennero rinchiusi in scuole o magazzini vuoti, per poi dopo qualche ora essere portati nei campi e fucilati a piccoli gruppi e seppelliti in numerose fosse comuni: sulle circa 8mila vittime ne sono state ritrovate ed identificate 6.600, ma una nuova fossa comune è stata scoperta ancora nel 2015.