Opinioni & Commenti

Afghanistan e Iraq: un fallimento la guerra al terrorismo

di Romanello Cantini

Sei anni dopo Pearl Harbour l’America aveva già vinto da due anni la seconda guerra mondiale. Sei anni dopo l’11 settembre l’America sembra lontana da vincere sia in Afghanistan sia in Iraq. Nel primo caso il barometro passa dal bene al male, nel secondo appena dal peggio al meno peggio. Tuttavia gli Stati Uniti, pur essendo l’obiettivo numero uno del terrorismo, sono uno dei pochi paesi che hanno evitato nuovi attentati dopo quello delle Torri Gemelle. L’America insomma sembra giocare meglio in difesa che all’attacco. O, per essere più precisi, per quanto paradossale possa apparire questa conclusione, la «prevenzione dal terrorismo» vince, mentre la «guerra al terrorismo» perde. La caccia a Bin Laden in Afghanistan è ormai un cartone animato dove il topo si mangia il gatto e riappare regolarmente sulla scena come il cucù dell’orologio. I talebani che sembravano già sconfitti sono riapparsi in forza e controllano di nuovo buona parte del paese.

Negli ultimi due anni gli attentati suicidi, prima mai usati in questa guerra, sono aumentati di sette volte. Non molto distante da Kabul dominano ovunque i papaveri dell’oppio e comandano i fucili dei vecchi signori della guerra e dei briganti di strada come sono quelli che hanno rapito i due nostri agenti segreti.

La insicurezza dell’Afghanistan sembra ormai estendersi anche alle regioni confinanti del Pakistan dove anche il regime di Musharraf, «il più alleato degli alleati», comincia ad entrare nel mirino degli attentati dei talebani. In Iraq, dopo i trentamila soldati americani giunti di rinforzo all’inizio dell’anno, la situazione è migliorata a Bagdad e nella provincia di Al-Anbar. Ma le vittime sono diminuite fra i militari e non fra i civili. Anzi. L’odio interetnico e interreligioso è tale che ormai negli attentati si impastano sostanze chimiche tossiche negli esplosivi. È aumentato il numero di poliziotti e dei soldati iracheni in teoria fino ad oltre quattrocentomila. Ma una buona parte sembra infida se non addirittura infiltrata con il compito di fare il doppio gioco. Il governo Maliki ha undici ministri dimissionari e non è riuscito a ricucire con i sunniti, né a disarmare le milizie sciite, né ad iniziare il decentramento regionale, né a distribuire i profitti del petrolio fra le varie etnie, né a spendere se non in minima parte le somme stanziate per la ricostruzione. Ha fatto cioè qualcosa in più di nulla, cioè pochissimo, sulla via della normalizzazione.

Il generale Petreus, capo delle forze americane a Bagdad, prevede al massimo il ritiro dei trentamila uomini di rinforzo entro l’estate prossima, ma ha ammesso di non essere in grado di fare nessuna previsione sul ritiro dei restanti 130 mila uomini. E il generale non può esagerare con il pessimismo visto che uno dei soldati destinati a mantenere il corpo di spedizione in Iraq è suo figlio. Senza un cambio di strategia ormai non si sa più come restare né come uscire dall’ex-Mesopotamia.