Opinioni & Commenti

Afghanistan, senza sicurezza e trasparenza rimarrà la paura

DI ROMANELLO CANTINI

La Conferenza internazionale, che il 20 luglio ha riunito a Kabul ministri e rappresentanti di una settantina di Paesi, vuole essere un richiamo all’importanza della questione afghana in questo momento e, insieme, un’iniezione di prestigio per un governo afghano in cerca di autorità interna e di sostegno internazionale.

Anche dopo il passaggio delle consegne dal generale McChrystal al generale Petreus alla guida della campagna che dura ormai da nove anni, la situazione militare non ha dato segni di miglioramento. Anzi l’ultimo mese di giugno con gli oltre 100 morti occidentali è stato per i soldati Nato il mese più sanguinoso da quando è cominciata la guerra. Ormai sono un migliaio gli americani caduti nel conflitto e altrettante le vittime degli altri Paesi Nato. Il generale Petreus cerca di ripetere in Afghanistan la strategia irachena basata sulla conquista del consenso della popolazione locale. Ciò significa, fra l’altro, ridurre o, addirittura, eliminare gli attacchi aerei che colpiscono la popolazione civile oltre che i talebani. Ma andare a scovare i guerriglieri, uno per uno, con il combattimento ravvicinato significa aumentare le perdite americane e scontrarsi con l’opinione pubblica del proprio Paese, mentre si cerca di riconciliarsi con l’opinione pubblica afghana. Destreggiarsi in un dilemma così stretto non è facile a meno che non siano i soldati afghani ad assumersi una parte crescente del rischio a cui vanno incontro le truppe della Nato. Anche cercare di conquistarsi la popolazione afghana con le opere pubbliche serve a poco se non si è in grado di garantire sicurezza a lungo termine. Si può cercare di costruire strade, di far funzionare scuole, di distribuire grano. Se la popolazione non è sicura che i talebani non torneranno prima o poi a vendicarsi dei “traditori”, non lavorerà alla strada, non fornirà insegnanti, non accetterà nemmeno il cibo che si offre. Tutti sanno ormai che gli occidentali cominceranno ad andarsene probabilmente a partire dalla metà dell’anno prossimo.

Cade sempre più sulle spalle degli afghani la responsabilità di ristabilire la calma e l’ordine nel Paese o attraverso un’efficienza militare che ancora non s’intravede o con un’opera di riconciliazione con tutti o parte dei talebani.

Ieri il presidente Karzai ha detto che gli afghani potranno farcela da soli a partire dal 2014. Attualmente l’esercito afghano conta 134.000 uomini e dovrebbe raddoppiare nei prossimi due anni. Ma nessuno per ora si fa troppe illusioni sull’efficienza di un esercito raccolto a fatica. Gli occidentali hanno ripetuto, anche alla Conferenza, che cominceranno a ritirarsi dall’anno prossimo, ma nessuno ha prudentemente fissato una data anche lontana per il ritiro dell’ultimo soldato Nato. Lo stesso generale Petreus, più che puntare tutto sull’esercito governativo, pensa di ripetere in Afghanistan l’operazione per cui ha assoldato in Iraq una milizia di ex-nemici sunniti, reclutando mercenari sotto la guida dei capitribù che sono i veri capi politici e militari afghani. Lo stesso presidente Karzai ha proposto di impiegare 600 milioni di dollari per cercare di assumere al proprio servizio decine di migliaia di ex-talebani che ora combattono dall’altra parte magari solo per la paga. E per questa via la Conferenza è entrata nel suo tema centrale che è quello di trasferire gradualmente al governo di Kabul le somme che sono state stanziate a livello mondiale per la sua ricostruzione. Finora sono stati raccolti a questo fine 36 miliardi di dollari, ma solo un quinto di questa cifra è stato messo a disposizione del governo di Kabul, mentre il resto è stato gestito bene o male dagli stessi donatori. Ora si tratta di consegnare al governo di Karzai almeno la metà di questa somma per dargli in mano uno strumento in più per cercare di riconquistare la fiducia della popolazione e per trattare con gli stessi talebani.

Il problema rimane, comunque sia, quello di un presidente Karzai che, anche dopo la sua faticosa vittoria elettorale dell’anno scorso, non ha fatto un solo gesto per togliersi di dosso l’accusa di corruzione generalizzata che circonda il suo entourage. Nonostante le richieste pressanti da parte occidentale, nessun afghano è stato finora condotto in giudizio per corruzione. E ora il bisogno di disimpegno degli occidentali e, di conseguenza, l’inevitabile rafforzamento di un Karzai inaffidabile quanto insostituibile lascia in mano al presidente di Kabul non solo il destino della guerra ma anche il suo significato. Se, a parole, tutti – compreso il segretario di stato Usa – ora sono d’accordo che bisogna trattare con i talebani, rimane vago con quali e con quanti. Alcune mosse di Karzai lasciano credere che il presidente sia disposto a trattare anche con il loro vertice cercando, non si sa bene, se una pace di compromesso o addirittura una resa.