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Alla fine di una lunga e brutta campagna elettorale

Tra pochi giorni si voterà per il referendum costituzionale e sarà la fine della campagna elettorale più lunga ed estenuante della storia repubblicana. Lunga perché iniziata a maggio, quando il Presidente del Consiglio disse che l’importante non erano le elezioni amministrative della scorsa primavera, ma per l’appunto la consultazione del 4 dicembre. Disse anche che questa si sarebbe tenuta ad ottobre, e l’averla rimandata per una serie di motivi oggettivi e giustificabili non ha comunque fatto bene alla credibilità del sistema.

Si vota per cambiare o meno 40 articoli della Carta, che in tutto ne conta 139. A conti fatti è quasi un terzo del totale: mai nessuna riforma era stata tanto ampia. La circostanza fa sì che ci si auguri una forte affluenza alle urne anche da parte dell’elettorato cattolico, spesso un po’ pigro e latitante negli ultimi tempi. Qualunque sia l’esito, è bene che sia sancito da una cospicua partecipazione: solo così la parte perdente non potrà dire che in realtà è nel suo campo che alligna la maggioranza silenziosa. I sondaggi, di cui non sappiamo più se fidarci, danno in vantaggio il «no» con una tendenza a crescere con il passare dei giorni. Matteo Renzi risponde invocando i precedenti della Brexit e delle elezioni americane.

Se dovesse perdere, sarebbe salutare per lui e per il Pd una sessione di autocoscienza: ebbri del 41% alle europee, può darsi si siano fatti un’illusione di troppo. Su una cosa il Presidente del Consiglio ha insistito giustamente, vale a dire sul principio che non doveva essere un referendum su di lui, e nemmeno sullo stato dell’economia. Poi però ha trasformato la campagna elettorale in uno one-man-show, ed anche i meglio disposti nei suoi confronti hanno avuto difficoltà a capire dove iniziava l’opera dello statista e dove finiva quella del promotore di se stesso. Ugualmente, quando le vacche sono magre e il ceto medio si impoverisce può accadere che si voti sulla Carta pensando al Jobs Act e alla Buona Scuola. Lo ripetiamo: non è giusto, ma è anche difficilmente evitabile.

Ad ogni modo, non spaventiamoci di fronte alle previsioni catastrofiche di una parte o dell’altra: il Paese ha la sua solidità, economica e democratica. Nessuna uscita dall’euro, nessuna svolta autocratica. Non si vota con la paura. In caso di vittoria del «sì» è difficile immaginare che Renzi vinca la tentazione di interpretare il successo come un’affermazione personale in un plebiscito sulla sua persona. Solo la Consulta, a quel punto, potrebbe imporgli di rivedere l’Italicum. Anche in questo caso, la sua azione di governo potrebbe estendersi ben oltre le prossime elezioni politiche, che ci sentiamo di prevedere sarebbero anticipate a ben prima della primavera 2018. E se dovessero prevalere i «no»? Renzi ha detto che non ci starà al gioco dei governicchi. Probabilmente tenterà per motivi opposti ai precedenti ancora la carta delle elezioni anticipate. Chissà, magari per ripensarci immediatamente dopo. Bisognerà assistere allora all’ingresso al centro della scena di un attore finora rimasto ai margini. E cioè di Sergio Mattarella: in politica vige la regola dei vasi comunicanti: se Palazzo Chigi perde peso politico ne acquista il Quirinale. È già successo.