Opinioni & Commenti

Anno della Fede, occasione per riscoprire la dimensione autentica del credere

In che cosa consiste l’essere cristiano, ovvero avere la fede in Cristo, si chiedevano i pagani nei primi secoli dell’era cristiana? Questa domanda ognuno di noi dovrebbe porsela ogni giorno, non solo in Chiesa durante le celebrazioni liturgiche, ma soprattutto quando, uscendo dal Tempio, ci si domanda come testimoniare agli altri la nostra speranza. «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri». (Giovanni 13,35). Don Tonino Bello era solito commentare con simpatica ironia questo passo evangelico, dicendo che, per sentirsi cristiani, non basta dunque portare il peso delle statue dei Santi patroni sulle spalle nelle processioni. Sarebbe meglio, concludeva il grande vescovo di Molfetta, portare i pesi dei fratelli in difficoltà.

Si è soliti dire che oggi la vera sfida della fede non è costituita dall’ateismo militante, che non è scomparso del tutto, ma che ha perduto gran parte del suo armamentario teorico a causa del relativismo che ha colpito tutti. La vera sfida sarebbe rappresentata dalla diffusa indifferenza nei confronti dei grandi dilemmi esistenziali. «Da dove veniamo? Dove andiamo? Possiamo sperare che esista qualcosa oltre la “curva dei giorni”?». Queste grandi domande sembrano oggi troppo impegnative per avere una risposta oltre quella che possono dare le scienze. In questo contesto rischia di diventare superflua la ricerca di parole di vita eterna, appagati come siamo dal fiume di parole che ogni giorno invadono la nostra vita senza lasciare traccia. Ma può incontrare la fede chi non avverte tutta la bellezza e il dramma dell’esistenza? La leggenda del Grande Inquisitore (Dostoewskij), in cui si condanna Cristo per aver annunciato la libertà invece di aver fatto il miracolo di liberare l’uomo dalla fame e dalle necessità materiali, mi sembra il paradigma del modo semplificato con cui l’uomo di sempre si pone di fronte ai grandi dilemmi dell’esistenza. Da qui all’indifferenza religiosa di fronte a un Dio che ci sembra incurante dei nostri bisogni e del nostro dolore il passo è breve.

Come dunque risvegliare la fede, prima di tutti in noi stessi, dato che la cultura dell’indifferenza è un veleno sottile che si è insinuato ovunque, senza lasciare immune nessuno, come talvolta rischiamo di dimenticare pensando che solo gli altri siano indifferenti? E invece dobbiamo essere consapevoli che neanche la comunità cristiana è esente dal rischio di cadere nella droga dell’indifferenza. Penso che la fede, come ci insegna la Lettera di Giacomo, debba essere risvegliata attraverso le opere, dato che una fede senza le opere è morta («fides sine operibus mortua est»). Non nel senso, però, che l’attivismo frenetico costituisca la prova della fede. Al contrario, le opere sono segno della fede quando questa è percepita in tutto il suo valore, ossia quando il credente vive con gioia l’adesione e testimonia con entusiasmo la pienezza di vita raggiunta. Nietzsche diceva che il cristianesimo ha avvelenato i pozzi della vita. A volte le nostre riunioni, ricolme di litigiosità e di inconcludenza, sembrano dar ragione al filosofo del nichilismo. L’Anno della fede rappresenta dunque l’occasione per riscoprire la dimensione autentica del credere, che non consiste nell’accettazione remissiva di una serie di norme morali, ma si esprime nell’adesione ad un lieta notizia capace di riempire di speranza ogni momento della vita, anche quelli in cui sembra prevalere il buio della disperazione.