Opinioni & Commenti

Anno della fede, un percorso aperto verso il futuro

Nell’intento di Benedetto XVI era centrale il richiamo al primato della fede, in un mondo dominato dal sincretismo religioso, dove gli stessi cattolici a volte sembrano aver smarrito il rigore di un’adesione senza riserve e senza compromessi alla Parola rivelata. In questa società che ha registrato un potente ritorno del «sacro», nelle sue forme più svariate, proprio tale adesione, paradossalmente, è stata indebolita. E troppo spesso la «dittatura del relativismo», che papa Ratzinger non si è stancato di denunziare, ha finito, nei confini stessi della Chiesa, per svuotare il senso dell’essere credenti, riducendo il contenuto della fede a una «lista della spesa», compilata secondo opinioni del tutto soggettive e individuali.

Da questo punto di vista, la chiusura dell’Anno della fede non può e non deve essere considerata il superamento dell’esigenza di fondo da cui esso ha tratto origine e della tematica che ne è stata il centro. Aprirsi al nuovo – accogliendo l’invito del Concilio – , dare spazio al dialogo con il mondo secolarizzato e con le altre religioni, non può significare  in alcun modo una minore fedeltà a quel patrimonio di verità per cui tanti martiri hanno versato il loro sangue. E resta attualissimo l’invito che Benedetto ha inteso rivolgere a tutti, ma soprattutto ai cristiani, a non confondere i frutti della vita spirituale  – impegno caritativo, responsabilità sociale, correttezza etica – con quella che ne è la radice e l’essenza, cioè appunto la fede teologale. È questa che distingue il discepolo di Cristo dal filantropo, dal moralista, dalla persona onesta, ma anche dall’uomo «religioso» che si apre al Mistero senza dargli però un preciso contenuto.

C’è da chiedersi, tuttavia, se l’impegno profuso per rispondere a questo invito, abbia dato luogo a dei significativi risultati. Certo, la fede non si può misurare e non avrebbe senso pretendere di tirare un bilancio che ne riguardi direttamente la crescita. Si può, però, avanzare il dubbio che, in generale (almeno nel nostro Paese), l’Anno della fede non abbia portato a quel decisivo rinnovamento della pastorale che – anche in rapporto al tema della «nuova evangelizzazione», rilanciato in questo stesso periodo – ci si sarebbe forse aspettati. Anche se con tante belle eccezioni, l’impressione è che siano ancora numerose le situazioni in cui una certa pratica prevalentemente ritualistica ha finito per prevalere sul compito di rimettere in primo piano la consapevolezza e la radicalità della fede.C’è da chiedersi se la stessa attività catechistica non sia rimasta troppo ferma a canoni e stili abitudinari di cui sempre più si avverte l’inadeguatezza. Tutti vediamo che nelle nostre parrocchie, a conclusione della preparazione alla prima comunione o, al più tardi, alla cresima, i ragazzi e le ragazze abbandonano in massa la pratica religiosa. Era una delle sfide che l’Anno della fede avrebbe dovuto, se non vincere, almeno affrontare. Lo ha fatto? Francamente sembra lecito dubitarne. Non meno problematico appare il bilancio dal punto di vista della carica missionaria delle nostre comunità. Ancora la nostra pastorale è in larga misura  ancorata al dualismo «dentro-fuori» il tempio. La parrocchia spesso continua di fatto a identificarsi con le mura di quest’ultimo, piuttosto che con il territorio e con i  suoi abitanti. Compresi i «lontani». E capita a volte di sentire un buon parroco, pur serio e irreprensibile,  esclamare, allargando le braccia: «Se non vengono in chiesa, mica posso andarli a cercare!». Ma è proprio questo che, nella parabola, Gesù indica come modello di pastore, sottolineando la sua scelta di lasciare le 99 pecore rimaste per andare a cercare quella perduta. E oggi, che ne è rimasta solo una, non sarebbe il caso di  mettersi alla ricerca delle 99 perdute?Il problema non riguarda, evidentemente, solo i sacerdoti, ma tutta la comunità. È in essa che deve maturare un nuovo slancio verso l’esterno, frutto a sua volta di una rinnovata consapevolezza della propria fede.

E qui entra in gioco la continuità, pur nella differenza, tra Benedetto XVI, che ha  voluto questo Anno della fede, e il suo successore, chiamato a chiuderlo (almeno formalmente), che esorta incessantemente i cristiani a uscire dal recinto delle loro celebrazioni e delle loro formule abituali, per portare l’annuncio del Vangelo alle periferie più estreme dell’esistenza. Un invito pressante, supportato dalla vigorosa testimonianza di papa Francesco, che ci costringe a non considerare concluso l’Anno della fede dopo il 24 novembre e a continuare a vederlo, al di là delle celebrazioni ufficiali, come un percorso aperto verso il futuro e un’occasione sempre rinnovata di vivere l’esodo di Pentecoste da cui è nata la Chiesa.