Opinioni & Commenti

Birmania, la dittatura dimenticata mette alla prova la non violenza

di Romanello Cantini

All’improvviso il mondo intero si accorge che in una parte del pianeta c’è una dittatura che ha l’età della nostra Autostrada del Sole e del traforo del Monte Bianco. Una dittatura che dura da quarantacinque anni. Il triplo del nazismo e il doppio del fascismo. E non si tratta solo di una delle tante ragnatele che catturano indisturbate innocenti in qualche angolo dimenticato del pianeta. Qui l’offesa alla dignità umana e alla libertà non solo è più duratura e indisturbata, ma è anche più sfacciata e provocatoria. Un paese ricco di gas e petrolio, di legno pregiato e di pietre preziose che esporta quasi dovunque mantiene una popolazione che per quasi la metà non ha nemmeno un dollaro al giorno. Un paese che non ha nemici esterni dedica il 40 per cento delle sue spese pubbliche alle forze armate e rimane al penultimo posto nella graduatoria delle spese per la sanità fra i 191 paesi del mondo. Tutto questo in nome di quella «via birmana al socialismo» che fu lo slogan della dittatura.Al di sopra di tutto ci sono i militari al potere, trincerati in una capitale-bunker lontana dalla gente e nascosta nella giungla come la mente del male nei film di James Bond e di cui si sa pochissimo. Come personaggi scespiriani drogati dal demone del potere fino alla soglia della morte i tre membri del triumvirato, che dominano nel paese e che le voci danno tutti e tre malati di cancro, continuano a impoverire la gente, a condannarla perfino al lavoro forzato, mentre si arricchiscono spudoratamente. Nell’occasione del matrimonio di una delle figlie dei tre generali la televisione ha dato notizia dei 50 milioni di dollari che le erano stati offerti e dei chili di diamanti che le erano stati regalati come accadeva una volta per gli sceicchi che chiedevano oro quanto pesavano.

Nel paese si sa chi avrebbe diritto a governare: è la Lega nazionale della democrazia che nelle elezioni del 1990 ottenne addirittura l’85 per cento dei seggi. Per regola chi vince le elezioni governa. In Birmania (oggi Myanmar) invece chi aveva vinto fu dichiarato fuori legge. La Leader spirituale del partito vincitore Aung San Suu Kyi, anziché essere chiamata a dirigere il paese, fu messa agli arresti domiciliari. La signora Aung predica la non violenza. Nel 1991 ha ottenuto il premio Nobel per la pace. Nel 2001 tutti i premi Nobel hanno firmato un manifesto per la sua liberazione. Due anni fa i colleghi che come lei hanno ottenuto il titolo di dottore honoris causa dalla università cattolica di Lovanio, da Jacques Delors a Carla Del Ponte hanno manifestato per la sua liberazione. Ma la signora Aung non può ancora uscire dalla sua casa né usare il telefono. Il premio Nobel è stato ritirato dai suoi figli. Suo marito è morto di cancro ad Oxford nel 1999 senza che lei potesse parlargli nemmeno da lontano. Ma Aung è solo il simbolo della repressione. In carcere ci sono altri 1300 prigionieri politici che la repressione di questi giorni aumenterà ancora.

Ottanta anni fa George Orwel, il futuro grande scrittore inglese, si trovava a fare il poliziotto in Birmania, allora colonia britannica. Un bel giorno sbatté la porta. «Non me la sento più – disse – di mettere in prigione delle persone perché hanno fatto quello che io avrei fatto al posto loro». Quello che scandalizza ancora oggi della Birmania è che sia punita la normalità dei diritti e premiata la loro violazione.

«Che la vostra libertà possa aiutare la nostra» dice spesso la signora Aung ai suoi amici stranieri. Certo anche gli europei possono fare qualcosa. Evitando, ad esempio, le triangolazioni che ancora oggi fanno arrivare armi nel Mayarmar. Tagliando la partecipazione di aziende italiane e francesi che ancora investono forte in Birmania. Cercando di convincere Cina e India che gli interessi strategici, il petrolio, la paura di un bis fra i buddisti del Tibet non sono motivi sufficienti per perdonare tutto.

Al di là della sorte di un popolo si gioca oggi in Birmania una scommessa a ripercussioni mondiali sulla efficacia della non violenza. E questo non solo per il ruolo di un buddismo in prima fila che spesso ma non sempre e dovunque è non violento. Ma perché la terapia di Gandhi e di Luther King ha dimostrato di non essere una utopia soprattutto nel combattere le dittature. La Spagna di Franco, la Polonia di Jaruzelski, le Filippine di Marcos, il Cile di Pinochet sono stati sepolti con la non violenza. Se questo metodo vincerà di nuovo anche in quel continente asiatico dove è stato applicato per la prima volta un secolo fa sarà un giorno importante non solo per la libertà di un popolo, ma per la libertà e la pace di tutti.