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Difesa legittima, ma con dei limiti

di Mauro Cozzoli, docente di teologia morale nella Pontificia Università Lateranense Episodi criminali a scopo di rapina – in aumento in questi ultimi tempi, non tanto per numero quanto per efferatezza – hanno suscitato in alcuni casi reazioni di difesa violenta da parte di cittadini, in particolare di commercianti, causando il ferimento grave o la morte dell’aggressore. In presenza di questa escalation del crimine, il ministro guardasigilli s’è fatto promotore di un disegno di legge inteso ad ampliare le maglie giuridiche dell’autodifesa, in pratica della difesa armata e violenta di privati cittadini contro gli aggressori.

Ciò ha suscitato un ampio dibattito, che vede da una parte i sostenitori dell’iniziativa del ministro, favorevoli a una garanzia giuridica maggiore dell’aggredito che si difende dall’aggressore: essi plaudono a una legge che tuteli – com’è stato detto – la vittima piuttosto che l’assalitore; dall’altra invece gli oppositori, perché preoccupati di quella che potrebbe diventare una controviolenza legale, che indurrebbe sempre più i cittadini a difendersi da soli, in pratica ad armarsi e a fare un uso immediato e inopinato delle armi, sia pure a scopo di difesa.

La questione prima ancora che giuridica è morale, essendo in gioco beni reali della persona, prima di tutto il bene fondamentale della vita. A essa la sapienza etica, insegnata anche dalla morale cristiana, ha risposto con il principio di legittima difesa, molto spesso invocato a giustificazione di episodi di cronaca come quelli accaduti in questi giorni e assunto a criterio di codificazione giuridica della difesa armata dei cittadini contro il crimine. Per una citazione e un’applicazione corretta del principio occorre, però, conoscere e considerare le condizioni di legittimità dell’autodifesa.

Non basta la finalità difensiva a rendere lecita una reazione. Una difesa violenta contro un aggressore è legittima a condizioni ben precise e vincolanti. La prima è che essa costituisca un estremo ricorso, vale a dire che si devono aver esperite prima tutte le vie non violente di dissuasione e di difesa e solo come ultimo e inevitabile rimedio ricorrere a essa.

In secondo luogo la violenza difensiva non può mai superare quella offensiva. Questo significa che non si può reagire con violenza inopinata: non si può usare un’arma contro chi sta commettendo un furto senza aggredire nessuno; non si può rispondere con violenza sanguinaria a un ladro, o a chi mi si rivolge contro senza ferocia, con violenza verbale o non armata. Come pure non si può ricorrere mai a una violenza superiore a quella sufficiente a fermare il crimine: uno non può ledere un organo vitale del malvivente ove basta immobilizzarne gli arti a fermarlo.

E da ultimo la difesa violenta è lecita a condizione che il crimine sia in atto e non semplicemente ipotizzato, previsto o possibile. Questo significa che non è lecita una violenza preventiva o dissuasiva, che invochi la legittima difesa a giustificazione o discolpa. Ciò non ha nulla a che vedere con l’installazione e l’uso di sistemi di sicurezza e di allarme, non esercitando questi alcuna violenza contro nessuno.

La propria legittima difesa è un diritto. Come tale vi si può evangelicamente rinunciare. Ma se vi si ricorre si è obbligati dalle condizioni etiche di legittimità. Vi è obbligato ciascun soggetto. Vi sono obbligati i legislatori, che nel codificarla legalmente non possono procedere ad arbitrio o sotto la pressione emotiva e reattiva del momento, ma nel rispetto delle esigenze etiche a tutela di tutti i beni umani in gioco.