Opinioni & Commenti

I verbi dei cristiani alla luce del Verbo che si fece carne

«E il Verbo si fece carne». È questo il cuore della fede cristiana che celebriamo a Natale. Il termine «carne» indica nelle lingue bibliche, la realtà dell’uomo, nella sua fragilità e debolezza, nei suoi limiti, nella sua storicità… Per noi che crediamo in Gesù, Dio è sceso nello scuro fossato della storia e ha condiviso la nostra umanità fragile e limitata, mentre Adamo, l’Adamo di sempre, vuole innalzarsi orgogliosamente e farsi dio, volendo raggiungere quegli attributi  della divinità che ritiene più appetibili e che in realtà sono solo le proiezioni dei suoi desideri insani di potenza. Per incontrare Dio è necessario dunque immergerci nell’umanità di Gesù, penetrare  il velo della sua carne, per scoprire il mistero del suo amore che ci redime e ci trasforma. Essere cristiani non consiste solo nell’accettare la dottrina teologica e morale del Maestro di Nazareth, per quanto sublime, ma chiede di fissare lo sguardo su di lui, assimilare il suo stile di vita, entrare in sintonia con lui,  avere in noi i suoi sentimenti, le sue emozioni, le sue passioni… la sua umanità.

E che cosa ci può essere di più umano dei sentimenti, delle passioni e delle emozioni?

Penso a Gesù che si indigna di fronte alla grettezza e alla durezza di cuore di chi non ritiene lecito guarire e liberare dal male in giorno di Sabato (Mc 3, 5), o quando rivolge i suoi «Guai» con veemenza agli ipocriti, prigionieri dei loro formalismi e delle loro ambiguità (Mt 23,23).

Gesù non è indifferente di fronte al male. Egli prova compassione per le folle disorientate e senza guida, affamate e stanche (Mc 6,34-36). Nessun grido che venga dal buio del dolore lo trova freddo e distaccato: «“Signore, che i nostri occhi si aprano!”. Gesù si commosse, toccò loro gli occhi e subito ricuperarono la vista  e lo seguirono» ( Mt 20,33-34). E Gesù si commuove fino alle lacrime per la città di Gerusalemme che ha rifiutato la sua visita e per il suo tragico destino (Lc 19,41). Così come non trattiene il pianto quando si reca alla tomba di Lazzaro (Gv 11,33) verso cui nutre un affetto così profondo, da offrire la sua vita per l’amico.

Gesù è capace di tenerezza che esprime con gesti delicati, come quando accarezza i bambini per benedirli e quando tocca con le sue mani sante i piagati nell’anima e nel corpo e quel che è più sconcertante, quando si fa toccare da essi , pensiamo all’emorroissa ( cf Mc 5,25) o alla peccatrice ( cf Lc 7,37). E la vita dal contatto con Lui rifiorisce. Gesù non è l’asceta dal volto smunto e dallo sguardo sempre austero: si prende addirittura la qualifica di «mangione e di beone» ( lc 7,34) perché ama la convivialità e la compagnia con tutti… specialmente con chi era perduto ed è stato ritrovato, con i piccoli e coloro che non contano, ma che si aprono al mistero di un Dio dal cuore grande «Gesù esultò di gioia nello Spirito e disse: ti rendo lode o Padre…» ( Lc 10,21).

Gesù cerca sempre il Padre e scopre il mistero della sua volontà leggendone con amore i segni  nelle cose che tutte gli parlano di Lui: le reti, il lievito, il sale, una lampada, le nuvole e la pioggia, il grano e la zizzania, i rovi e i gigli del campo…. Quanto ha amato la terra Gesù e quanto ha amato la vita! Egli è il Messia di tutti gli uomini di cui condivide, nell’umana carne, la ricerca della volontà di Dio, soprattutto nella preghiera, dialogo intimo e filiale che intrattiene col Padre, da solo, di notte: quanti interrogativi lo avranno tormentato simili a quello drammatico e inquietante che risuona in Lc 18, 8 «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

Gesù ha sperimentato anche la paura del fallimento e l’angoscia della morte. Lungi da ogni spavaldo e retorico eroismo, da ogni superomismo tracotante, Egli è stato l’Emmanuele, il Dio con noi, anche in queste umilissime e verissime manifestazioni della carne. Siamo al Getzemani: «Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Gesù disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate”» ( Mc14,33-34). Gesù si trova solo con Colui che ha rivelato come Dio buono e misericordioso, e lo invoca ancora col familiare appellativo di Padre, «Abba»… e in lui si abbandona con totale fiducia. Con straordinaria sinteticità la lettera agli Ebrei (5,7-9) afferma che Gesù «imparò l’obbedienza dalle cose che patì»… divenendo così , nella sua carne-umanità totalmente pervasa da Dio, «causa di salvezza, per coloro che gli obbediscono»… E tengono «fisso lo sguardo» su di Lui … «su Gesù, colui che da origine alla fede e la porta a compimento» (Ebr 12,2).

Celebriamo il Natale dunque  tenendo fisso lo sguardo sulla sua carne divinamente umana e chiediamo di avere in noi gli stessi sentimenti  e le stesse passioni…

Così la Parola di Dio prederà ancora carne se vi saranno:

dei cristiani che non si rassegnino al male, come inevitabile e sappiano indignarsi: sia di fronte allo sfascio delle famiglie, allo spreco della vita, alla sessualità banalizzata e sordida, sia di fronte alla contaminazione dell’ambiente o alla corruzione politica, all’ingiustizia economica o all’infamia della guerra  e della violenza;

dei cristiani che sappiano compatire, piangere con chi piange e prendersi cura e farsi carico, pregare ed agire;

dei cristiani che siano attenti a riconoscere e valorizzare anche i più piccoli gesti d’amore e che offrano amore, perdono e tenerezza a chi non ne ha: che si immergano nella storia dell’umanità con delicatezza e rispetto,  mettendosi a contatto vero con gli altri;

dei cristiani che vogliano condividere le gioie dell’uomo, ma soprattutto che diano gioia  e motivi di gioia:

dei cristiani che abbiano il coraggio di spartire le paure e le angosce dell’umanità, nella ricerca umile della verità e della giustizia, ma soprattutto che abbiano il coraggio di affidarsi al Padre di Gesù, nell’obbedienza filiale e generosa alla sua legge d’amore.

*vescovo di Pescia