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Il Papa in Turchia, un ponte tra Occidente e Oriente

di Romanello CantiniAncora pochi decenni fa la Turchia era per i papi poco più di un albergo che ospitava il patriarca ortodosso. Il viaggio ad Istanbul aveva per scopo principale i progressi dell’ecumenismo. Del viaggio di Paolo VI di quarant’anni fa si ricorda il commovente prendersi per mano con il patriarca Atenagora. Del viaggio di Giovanni Paolo II, dodici anni dopo, le preghiere l’uno accanto all’altro con il patriarca Demetrio per la festa di Sant’Andrea. Le autorità turche si limitavano ad aspettare il Papa all’aeroporto con il picchetto d’onore.

Poi è venuta la radicalizzazione di un certo islamismo, l’11 settembre, la guerra in Iraq, la crescita di una certa diffidenza e suscettibilità anche in Turchia (Paolo VI al contrario aveva potuto non solo entrare ma anche pregare in Santa Sofia). Le polemiche seguite al discorso di Ratisbona hanno avuto una eco risentita soprattutto in Turchia perché nell’accenno all’uso della forza da parte dell’Islam si è voluto sentire come una sconfessione di un grande impero in cui Istanbul rivede la sua gloria e la sua grandezza per almeno sei secoli e perché contemporaneamente questo islamismo rifiuta la guerra santa come essenziale all’Islam.

In questo nuovo clima quello che prima era la cornice è diventato il cuore del viaggio anche se il Papa ha ribadito il senso religioso e non politico della visita. Il miglioramento del rapporto con quest’Islam così vicino da premere anche politicamente alle porte dell’Europa, e con lo stesso stato turco, non poteva non approfittare di una occasione che solo poche frange estremiste avrebbero voluto cancellare e che invece diventava tanto più importante quanto più cresceva l’esigenza della ripresa di un dialogo anche a costo di dover bussare a qualche varco socchiuso.Lo svolgimento del viaggio papale ha dato ragione alla speranza anche di fronte ad una certa apatia delle istituzioni turche fino alla vigilia e a certe proteste per la verità più rumorose che numerose delle settimane passate. Il Papa è stato ricevuto all’aeroporto dal premier Erdogan che in un primo tempo si era reso indisponibile, ha potuto stringere la mano al gran mufti Ali Bardakoglu che era stato addirittura violento nel suo attacco al discorso di Ratisbona, ha potuto sfilare per le vie senza incontrare contestazione, seppure senza ali di folla, come è naturale in un paese per il novantasette per cento musulmano.Quando si rompe il ghiaccio bisogna dare per scontata la freddezza iniziale che si trova. Ma il contatto è stato ristabilito. Forse qualcuno si contenta di una lunga stretta di mano, di aver trovato uno sponsor per l’ingresso in Europa, di aver colto l’occasione per fare una larvata ramanzina su quel passato che si disseppellisce tutte le volte che si vuole frenare un dialogo interreligioso.

Ma il Papa è andato molto più in là. Professando il suo amore per il popolo turco e il suo rispetto e la sua ammirazione per l’Islam, ha reso pretestuosa e stonata ogni polemica. Meglio ancora, impostando il dialogo interreligioso non sulle sabbie mobili della politica contingente, ma sui grandi temi dell’uomo e del pianeta, lo ha reso insieme necessario e duraturo. La fede comune in un unico Dio di chi lo prega piegando le ginocchia o piegando la fronte, la sinergia di fatto di tutte le religioni nel richiamare l’uomo disincantato del nostro tempo alla trascendenza, l’alleanza per la pace a cui le grandi religioni con la convergenza di miliardi di fedeli possono portare quasi la totalità dell’umanità: sono stati questi i grandi temi che Benedetto XVI ha portato alla ribalta con il suo viaggio in Turchia.

E non è stato reticente su questioni che andavano toccate nonostante la loro delicatezza: la condanna della violenza con motivazioni religiose, la collaborazione con le istituzioni internazionali nella lotta al terrorismo, l’apprezzamento di una sana laicità e il rispetto della libertà religiosa con chiaro riferimento ad una Turchia dove i cristiani, sia cattolici, sia ortodossi, sentono sempre di più il peso della emarginazione e talvolta anche della discriminazione a livello della società civile.

Il riavvicinamento fra le Chiese di Occidente e di Oriente che già Paolo VI aveva chiamato «sorelle» e di cui Giovanni Paolo II aveva riconosciuto la «comunione anche se non perfetta fra loro» oggi sta soprattutto in questa comune difesa e in questa inevitabile scommessa di un dialogo dentro un mondo in cui è sempre più difficile vivere senza convivere.

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