Opinioni & Commenti

Il Patto di stabilità e gli effetti sulle tasche degli italiani

di Pier Angelo Mori

Quando i paesi dell’Unione Europea decisero di promuovere la moneta unica agli inizi degli anni Novanta si pose subito un problema di notevole portata. Da una parte vi erano paesi virtuosi dal punto di vista fiscale come la Germania, con un debito pubblico contenuto, dall’altra paesi poco virtuosi come l’Italia, che aveva già allora un debito pubblico assai elevato.

Un debito pubblico elevato tende a generare instabilità monetaria, cioè alta inflazione, alti tassi di interesse e svalutazioni della valuta nazionale, come appunto si è verificato a partire dagli anni settanta in Italia ma non nei paesi virtuosi di cui la Germania era il campione. Di qui la necessità di introdurre misure di armonizzazione delle politiche dei paesi aderenti alla moneta unica al fine di evitare che debiti di dimensioni eccessive potessero trasferire sull’euro gli effetti perversi già sperimentati a livello di valute nazionali. L’Italia non era in effetti l’unico paese poco virtuoso – il Belgio ad esempio ha avuto una storia fiscale molto simile alla nostra – ma, date le dimensioni del paese, era il vero problema, e la lunga diatriba con la Germania riguardo alla nostra entrata nell’euro nasceva proprio dalla preoccupazione dei tedeschi che il nostro debito – di gran lunga il più rilevante dell’Unione – potesse provocare nell’euro un’instabilità che invece il marco tedesco non aveva mai sperimentato nel dopoguerra.

Su questo sfondo si inserisce il trattato di Maastricht del 1993. Il trattato introduce alcune semplici regole di disciplina fiscale, e precisamente che il debito pubblico di ciascun paese debba essere inferiore al 60% del prodotto interno lordo (PIL) e il deficit inferiore al 3% (il deficit è l’incremento del debito pubblico nell’arco di un anno). Il Patto di Stabilità e Crescita è un accordo siglato nel 1997 per rendere effettive queste regole mediante la previsione di sanzioni per il mancato rispetto: in pratica, i paesi aderenti all’euro che non si attengono ai parametri sono passibili di «multe» che possono arrivare fino allo 0,5% del PIL. Questi nella sostanza sono i principi di base del Patto di Stabilità comunitario.

Le implicazioni economiche del Patto sono state e sono diverse per i paesi virtuosi e per quelli non virtuosi; in particolare i secondi hanno dovuto varare nel corso degli anni politiche finanziarie restrittive. L’Italia ha cominciato questo percorso ancor prima dell’entrata in vigore dell’euro – si ricordi in proposito la famosa «tassa per l’euro» del primo governo Prodi – e questo processo è tuttora in atto. Tutti i governi che si sono succeduti dal duemila in avanti si sono dovuti confrontare con esso e, pur con soluzioni di politica finanziaria diverse a seconda del colore, il contenimento del deficit e la riduzione del debito sono state un obiettivo primario e costante dell’azione di governo.

Le politiche finanziarie restrittive tipicamente hanno effetti recessivi sul prodotto interno e questo è il prezzo che l’Italia ha dovuto pagare per la permanenza nell’unione monetaria: non v’è dubbio che la bassa crescita degli ultimi dieci anni abbia almeno in parte origine nelle politiche collegate al Patto. A fronte di questo costo vi è stato il beneficio della sostenibilità finanziaria del nostro esorbitante debito pubblico, grazie ai tassi di interesse particolarmente bassi che hanno caratterizzato l’area dell’euro. In poche parole, paghiamo oggi gli errori e gli eccessi di spesa dei decenni precedenti con una bassa crescita e tutti gli effetti collaterali che questo comporta, dall’impoverimento di intere categorie sociali e aree del paese agli effetti negativi sulla struttura industriale. Ciò nonostante l’uscita dall’euro non è stata mai sostenuta da nessuna forza politica e chi l’ha fatto lo ha fatto più per esercizio intellettuale che per seria convinzione: il debito pubblico ci condiziona pesantemente e rende le linee di politica macroeconomica di fatto senza vere alternative, almeno per il momento.

Se, stante l’attuale Patto, non vi sono grandi margini di manovra sui saldi macroeconomici – il deficit deve essere contenuto e il debito deve tendenzialmente diminuire -, è sulle singole voci di spesa e di entrata che si deve concentrare l’azione della politica economica: sono le politiche industriali, le politiche attive del lavoro, le politiche dell’istruzione e della ricerca che possono aiutare il paese a riprendere la strada della crescita. Purtroppo sono proprio queste le politiche più difficili da attuare – la porta stretta della politica economica – e per questo i risultati ottenuti dai vari governi sono stati piuttosto scarsi. Ma non abbiamo scelta: non c’è nel nostro caso una porta larga da cui passare e in assenza di mosse azzeccate a livello di politiche settoriali la prospettiva è il declino del paese, stretto com’è tra il rigore finanziario e la mancanza di consenso generale sulle misure di sostegno all’economia.