Opinioni & Commenti

Il «Renzi-Boschi», pregi e difetti del disegno di legge costituzionale

Il disegno di legge di riforma costituzionale, noto come «Renzi – Boschi», sembra aver dunque imboccato la strada finale. Una volta approvato infatti dal Senato, che ha recepito le modifiche introdotte nel precedente passaggio alla Camera con qualche ulteriore variazione, il disegno di legge sembra destinato ad un voto di conferma da parte della Camera, per poi ripassare rispettivamente da Senato e Camera per le ultime due votazioni, sulle quali non dovrebbero esservi sorprese (stando almeno alla situazione in essere). Poi vi sarà il referendum (dovendosi escludere che nelle ultime votazioni si raggiunga la maggioranza dei due terzi): lì dunque si giocherà l’ultima e definitiva partita della riforma costituzionale.

Come ormai a tutti noto, la riforma costituzionale si incentra su due temi principali: la riforma del bicameralismo e la revisione dei rapporti tra Stato e autonomie regionali, cui se ne sono aggiunti altri, forse non del tutto secondari (alcuni conseguenti alla riforma del bicameralismo, altri del tutto autonomi: l’abolizione del Cnel, l’eliminazione delle province, il rafforzamento dei poteri del Governo in Parlamento, ed altri ancora). Non potendo esaminarli tutti, concentriamoci sui due aspetti principali.

Per quanto riguarda il superamento del bicameralismo, si è scelta la strada di attribuire ad una sola Camera la funzione di indirizzo politico e di controllo nei confronti del Governo, oltre alla funzione legislativa (salvo eccezioni per alcune tipologie di leggi). Al Senato, spogliato di queste due fondamentali funzioni, ne sono state attribuite altre (tra queste, il raccordo tra lo Stato e gli enti locali con l’Unione europea; la valutazione delle politiche pubbliche e dell’attività delle pubbliche amministrazioni; nonché la valutazione delle leggi statali), oltre alla partecipazione al procedimento legislativo, con un ruolo tuttavia del tutto secondario.

Tutto ciò verrà svolto da un Senato di «dopolavoristi»: nel senso che i futuri senatori saranno anche (e, forse, soprattutto) sindaci e consiglieri comunali, ed eserciteranno le funzioni senatoriali rigorosamente a titolo gratuito. Qui sta uno dei primi aspetti di incognita: in che modo sarà possibile per un Senato svolgere funzioni così importanti con tempi di lavoro che di necessità saranno ridotti (per consentire ai senatori di svolgere le funzioni per le quali sono stati eletti dai cittadini)?

In secondo luogo si porrà un problema di «rappresentanza» dei futuri senatori. Essi saranno eletti, come si è detto, dai Consigli regionali, ma una volta eletti essi saranno senatori a pieno titolo, cioè non riceveranno nessun mandato «vincolato» da parte della regione che li ha eletti (come, invece, avviene nella seconda Camera tedesca). Quindi è immaginabile, dato il sistema politico italiano, che essi si aggregheranno per appartenenze politiche più che per provenienze territoriali: in altri termini, è facile immaginare che due senatori eletti dallo stesso partito in due regioni diverse voteranno in modo simile assai più frequentemente di due senatori eletti dalla stessa regione ma appartenenti a due partiti diversi. Con il che l’obiettivo di fare del Senato una Camera «rappresentativa delle autonomie regionali» potrebbe svanire, a vantaggio di un Senato in cui prevarranno (more solito) logiche di appartenenza partitica.Come conseguenza del superamento del bicameralismo paritario, verrebbe modificato il procedimento legislativo: e qui, almeno da un punto di vista tecnico, siamo di fronte ad una decisa complicazione del sistema (malgrado l’obiettivo di semplificazione che si è dichiarato di voler realizzare). A fronte infatti dell’unico procedimento attuale, con la riforma ne avremo un numero imprecisato, comunque superiore a cinque.

Per quanto riguarda la parte relativa alla riforma del Titolo V, l’obiettivo dichiarato era di diminuire il contenzioso tra Stato e Regioni: per realizzarlo, si è scelta la strada di tagliare drasticamente i poteri delle regioni. Ed infatti non soltanto molte materie che oggi sono di competenza legislativa regionale diventeranno statali, ma – in più – lo Stato potrà intervenire anche sulle materie regionali «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero l’interesse generale»: in sostanza, ogni volta che lo vorrà. Anche l’obiettivo dichiarato di diminuire il contenzioso rischia di rimanere un miraggio, perché l’elenco delle competenze è scritto in modo assai confuso ed incompleto, come ha osservato anche l’ex presidente della Corte costituzionale Ugo de Siervo.

A fronte della decisa diminuzione di autonomia per le regioni ordinarie fa riscontro l’incomprensibile (almeno sul piano logico, perché politicamente si capisce benissimo) mantenimento dello status quo per le regioni speciali, che anzi vengono rafforzate nella loro autonomia.

In sostanza, per le regioni (ordinarie) le speranze sono tutte riposte nel funzionamento del Senato: soltanto con un ruolo effettivo e politicamente rilevante della seconda Camera esse potranno sperare di poter contare qualcosa e di affermare il senso della loro esistenza, senso che il drastico taglio delle competenze rischia di compromettere gravemente.Quale valutazione complessiva della riforma, dunque?

A mio parere, resta apprezzabile il tentativo di superare il bicameralismo paritario, ed anche la scelta di non intervenire su altre parti della Costituzione. Sicuramente, almeno questa è la mia valutazione, la riforma attuale è preferibile a quella approvata dal Parlamento nel 2005 (e bocciata dal referendum del 2006): i rischi di un decadimento della qualità democratica delle istituzioni, che pure qualcuno prospetta anche per la riforma attuale, mi sembrano oggettivamente assai minori rispetto al precedente tentativo.

Purtroppo però, il positivo rischia di fermarsi qui. Le soluzioni tecniche sono contraddittorie, confuse e talvolta sbagliate; alcune scelte politiche assai discutibili; anche il modo con cui la riforma è stata discussa ed approvata, con una maggioranza arroccata nella presunzione di avere comunque ragione, e le opposizioni oscillanti tra accuse di intenti eversivi e scelte aventiniane senza apportare contributi efficaci, non depone a favore di un processo di riforma costituzionale di così ampia portata. Non c’è bisogno di ricordare che una riforma della Costituzione richiederebbe sempre un consenso ampio e una partecipazione costruttiva da parte di tutti, o perlomeno di quasi tutti.

Speriamo che, se la legge sarà approvata in via definitiva, ai difetti maggiori si possa ovviare mediante l’interpretazione e la prassi applicativa. Ma non sarà facile.