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Il cammino ecumenico? Continua. Nella chiarezza

di Renato BuriganaLa Nota («Risposte a quesiti sulla dottrina della Chiesa») della Congregazione per la Dottrina della fede, uscita nei giorni scorsi, è composta da cinque risposte ad altrettanti quesiti, che aiuteranno il cammino ecumenico e la comprensione della Chiesa cattolica. Perché?Innanzitutto la  Nota ripropone un punto centrale del Concilio Vaticano II sulla chiesa. Il numero 8 della Lumen Gentium, là dove i Padri conciliari intesero con forza e nella Tradizione sottolineare che la Chiesa di Cristo «sussiste» nella Chiesa cattolica. Sostituirono il verbo «est» con «subsistit in». Questo è nella Tradizione e nella consapevolezza di far iniziare alla Chiesa il cammino ecumenico. Si tratta di un percorso che le chiese e comunità non cattoliche avevano già iniziato nel 1910, a Edimburgo, in una assemblea missionaria che porterà poi, nel 1948, nella istituzione del Consiglio Ecumenico delle Chiese.È bene fare subito due precisazioni fondamentali. La  Nota, come ogni documento emanato da organismi romani, è diretta in primo luogo ai cattolici e a tutte le chiese locali. Non è quindi un testo rivolto genericamente a tutti i cristiani o a tutti gli uomini di buona volontà, né tanto meno è un testo solo per l’Italia. La Nota lo dice nella sua premessa, prima di rispondere ai quesiti.Nella seconda e terza risposta si specifica la retta interpretazione al numero 8 della Lumen gentium (testo integrale )e le sue conseguenze per i due Decreti che portarono la Chiesa cattolica ad esser protagonista del movimento ecumenico: l’Unitatis redintegratio (testo integrale) e l’Orientalium Ecclesiarum (testo integrale). Ora nella seconda risposta si ribadisce la dottrina espressa nel Vaticano II affermando che la «sussistenza è questa continuità storica e la permanenza di tutti gli elementi istituiti da Cristo nella Chiesa cattolica, nella quale concretamente si trova la Chiesa di Cristo su questa terra». Tutti gli elementi della Chiesa voluta e istituita da Cristo sono oggi presenti solo nella Chiesa cattolica. E nelle altre confessioni cristiane? Certamente no. Ma questo non è una novità. Lo diceva il Concilio con i suoi documenti e lo ha percepito il cammino ecumenico in questi decenni. Tanto è vero che il Concilio e tutti i documenti magisteriali seguenti utilizzano per parlare dei non cattolici l’espressione «chiese e comunità cristiane». Una espressione che dal Decreto Unitatis reditengratio (testo integrale) permette di dialogare con la tradizione ortodossa e quella riformata senza confusioni ecclesiologiche. Il Decreto sull’ecumenismo spiega al numero 13 le due grandi divisioni avvenute nell’unica Chiesa: quella orientale e quella nata dalla Riforma. «Tuttavia – scrive il Decreto – queste diverse divisioni differiscono notevolmente fra loro non soltanto in ragione dell’origine, del luogo e del tempo, ma specialmente per la natura e la gravità delle questioni attinenti alla fede e alla struttura ecclesiale». Proprio la chiarezza di questo linguaggio ha permesso alla Chiesa cattolica di iniziare il cammino ecumenico. Ricordiamo che in quegli anni si svolse a New Dehli (1961) un’importante Assemblea del Consiglio Ecumenico delle Chiese, alla quale parteciparono per la prima volta in qualità di osservatori anche teologici cattolici. Proprio nell’Assemblea di New Delhi venne modificata la dichiarazione che consentiva l’adesione al Consiglio Ecumenico delle Chiese. Iniziarono così a prendere parte al cammino ecumenico alcune chiese ortodosse, e la chiesa cattolica (pur non facendo parte del Consiglio Ecumenico delle Chiese, e mai ne entrerà a far parte) iniziò la sua partecipazione a tutti gli organismi teologici e pastorali. È utile per la comprensione delle problematiche ecumeniche, aperte a tutt’oggi, la lettura di alcuni saggi di Luigi Sartori, il padre della teologia ecumenica in Italia, scomparso lo scorso maggio, raccolti nel libro Teologia ecumenica. Saggi (Padova, Editrice Gregoriana,  1987). La terza e la quarta risposta della  Nota esplicitano questo perché, riprendendo il Decreto. «Infatti – scrive la  Nota – lo Spirito di Cristo non ricusa di servirsi di esse come di strumenti di salvezza, il cui valore deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità, che è stata affidata alla Chiesa cattolica» (cfr Unitatis reditengratio , 3.4). Ma allora questo testo della Congregazione può aiutare il cammino ecumenico o lo fermerà? Al di là di alcune prese di posizione, la risposta è affermativa. In questi anni alcuni hanno proposto modelli ecclesiologici per l’unità, altri hanno provato a superare in modo «irenico» le divisioni. Ma l’unica strada per l’ecumenismo è quella di leggere e rileggere il Decreto e i molteplici testi teologici redatti dai colloqui che in questi decenni si sono avuti fra le diverse confessioni cristiane. Basta citare gli sforzi compiuti da papa Giovanni Paolo II, dai suoi viaggi, ai suoi scritti, ai suoi gesti in favore del dialogo ecumenico e dall’allora professor Joseph Ratzinger, che ha dedicato buona parte della sua vita accademica alla riflessione ecumenica. Mi pare utile richiamare una riflessione, ancora di grande attualità, che fece al momento della promulgazione del Decreto Unitatis redintegratio il professore Lukas Vischer, allora segretario della Commissione Fede e Costituzione e osservatore al Vaticano II: «Le chiese non Romane non negano che la Chiesa Cattolica Romana si debba proclamare come la Chiesa unica e una. Ma perché si possa proclamare un dialogo permanente tra le Chiese separate, bisogna ritrovare una forma di comunanza che non costringa le Chiese non Romane ad accogliere già nel periodo del dialogo la concezione romano-cattolica dell’unità e dell’unione» (cfr Lorenz card. Jaeger, Il Decreto conciliare sull’ecumenismo, Brescia, Morcelliana, 1965, pag. 89).