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Il preoccupante braccio di ferro tra Corea del Nord e Stati Uniti

La prima vittima di uno scontro armato fra le due Coree sarebbe una città intera e immensa e cioè Seul, la capitale della Corea del Sud, questo enorme formicaio umano di quasi trenta milioni di abitanti con il suo hinterland che si trova a cinquanta chilometri di distanza dal confine della Corea del Nord. Come Firenze rispetto a Roncobilaccio. Il resto degli altri cinquanta milioni di sudcoreani, di cui un terzo sono cristiani, non è in genere più lontano di cento chilometri dalla famosa zona smilitarizzata che segna il confine fra le due Coree.

C’è chi immagina di potere eliminare le bombe della Corea del Nord con bombardamenti aerei e con i famosi missili Taurus capaci di sfondare anche i bunker dove gli arsenali nucleari sono nascosti. Ma sarebbe quasi impossibile eliminarli tutti. Ammesso e non concesso che questo disarmo con le armi sia possibile, Kim Jong-un, questo strambo dittatore comunista che non riesce tutti gli anni a sfamare il suo popolo ma ha il quarto esercito del mondo, avrebbe ancora in mano tredicimila cannoni per non parlare delle migliaia di tonnellate di armi chimiche e biologiche. Ce n’è quanto basta ed avanza per iniziare e non finire una apocalisse. La Cina ha del resto fatto sapere che rimarrebbe neutrale nel caso di un attacco preventivo di Pyongyang, ma interverrebbe nel caso che fosse la Corea del Nord ad essere aggredita.

Non riusciamo a uscire da una logica asimmetrica molto pericolosa per cui ogni contendente parla una lingua diversa dall’altro. Legge ogni mossa dell’avversario come una provocazione. Gli Stati Uniti vedono in ogni lancio missilistico della Corea del Nord una premessa per un attacco alla Corea del Sud. La Corea del Nord vede in ogni esercitazione militare degli Stati Uniti ai suoi confini un’anteprima dell’invasione. Gli Usa considerano le sanzioni un modo per indurre la Corea del Nord a più miti consigli. Kim Jong-un considera le sanzioni un’arma incruenta degli Usa per far cadere il suo regime. E i due protagonisti in contesa non sono purtroppo per carattere tipi da abbassare troppo né i toni né la cresta. Da un lato Kim Jong-un è abituato a far parlare di sé solo celebrando i missili e le atomiche che si vanta di possedere, compresa alla fine la bomba all’idrogeno. Dall’altro lato Trump è stato eletto proprio perché ha promesso di fare la voce grossa con tutti i veri o presunti nemici dell’America.

Mezzo secolo fa in piena fase di «equilibrio del terrore» Raymond Aron scrisse che nell’era atomica l’atteggiamento più pericoloso e potenzialmente catastrofico era l’esibizione del coraggio che il filosofo francese illustrò con l’esempio di quel gioco stupido allora in voga fra i giovani americani per cui due auto si lanciano una contro l’altra e perde chi si scansa per primo.

Anche nella crisi coreana nessuno vuole dimostrare di avere paura almeno davanti alla platea del mondo e risponde alla minaccia dell’altro con un’altra minaccia. Ma alla fine, ridotte in soldoni, anche le soluzioni estreme della contesa rimangono due. Da un lato imparare a convivere con una Corea del Nord nucleare. Dall’altro una guerra che può essere, come ha ricordato anche Putin, non solo nucleare, ma anche «su vasta scala». Anche fra queste due ipotesi peggiori appare ovvio perfino dire quale è la migliore.

Mezzo secolo fa quando fu approvato il trattato di non proliferazione nucleare le potenze nucleari erano cinque. Ora sono diventate nove. Non hanno rispettato il trattato India, Pakistan, Israele e Corea del Nord che si sono costruite le proprie atomiche. Ma non lo hanno rispettato nemmeno Stati Uniti, Russia, Inghilterra, Francia, Cina che, sempre secondo il trattato, dovevano distruggere le proprie atomiche e non le hanno distrutte.

Oggi la carta più importante per cercare un negoziato un’ora prima della catastrofe è quella della Cina che potrebbe fra l’altro strangolare economicamente la Corea del Nord tagliandole il suo petrolio dopo averle tagliato il carbone. Ma il penultimo regime comunista non vuole diventare nemmeno l’ultimo regime comunista. Vuole una Corea del Nord senza atomica, ma non una Corea del Nord che cambia regime perché questo vorrebbe dire la riunificazione delle due Coree e l’esercito americano ai suoi confini. E finché Trump mantiene la sua costante animosità contro la Cina sul piano economico i cinesi temono che anche la crisi coreana possa essere un modo per contrastare il montare della Cina nella economia mondiale con una turbolenza ai suoi confini. A questo proposito in questi giorni il Financial Times è andato a scomodare perfino Tucidide per ricordare che, secondo il grande storico greco, la trentennale guerra del Peloponneso scoppiò perché Sparta, potenza dominante dell’epoca voleva fermare Atene, potenza emergente dell’epoca.