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Imporre Gerusalemme come capitale è il modo più sicuro per sabotare la pace

Gerusalemme è sempre stata meno di una città e molto più di una città. Anche quando alla metà dell’Ottocento era un paesone di diecimila abitanti era cercata, invocata, portata dentro l’anima quasi dovunque nel mondo. «Se ti dimentico Gerusalemme, che la mia mano si paralizzi» valeva per ebrei e musulmani. Gerusalemme è simbolo, è memoria, è promessa. È una città fatta non tanto di pietre qualsiasi, ma di pietre sacre: i blocchi del Tempio, la pietra del Sepolcro di Cristo, la roccia da cui Maometto secondo i musulmani sarebbe salito al cielo. È la città di Davide e di Salomone per gli ebrei, la città del sacrificio della Croce e della Resurrezione per i cristiani, la città del profeti, di Abramo, di Davide,di Gesù per il musulmani. È il luogo che è prefigurazione dei novissimi: Gerusalemme la Pia addirittura 28 chilometri sopra la Gerusalemme storica secondo la tradizione rabbinica, la Gerusalemme Terrestre che secondo i cristiani prefigura la Gerusalemme Celeste, la Gerusalemme dove tutti e tutto, perfino la Kabaa, saranno ricondotti alla fine dei tempi secondo i musulmani.

Chi in questi giorni ha detto che Gerusalemme è la capitale di Israele da tremila anni non conosce la sua storia. Gerusalemme non è mai stata città di un solo popolo. Perfino la Gerusalemme dell’età d’oro di Davide e di Salomone, frutto, secondo la narrazione biblica, di una conquista molto sanguinosa e feroce, era una città che conteneva un altro popolo: quello conquistato. «I gebusei dimorano insieme ai figli di Giuda in Gerusalemme» dice il libro di Giosuè. Per molti secoli, dal tempo di Costantino in poi, Gerusalemme è stata una città a maggioranza di popolazione cristiana. Alla metà del Cinquecento la maggioranza era musulmana. E musulmana era ancora la maggioranza fino quasi alla metà dell’Ottocento come ci ricorda il libro di Karen Armstrong su Gerusalemme dove si può leggere che alla fine del Quattrocento «a Gerusalemme c’erano circa settanta famiglie ebree». Anche dopo la grande migrazione sionista, ancora nel 1922, quando gli inglesi fecero il primo censimento, nella città vecchia, ci trovarono 9.345 musulmani, 7.262 cristiani e 5.639 ebrei.

Gerusalemme venti volte assediata, due volte distrutta e ricostruita, conquistata e poi persa da sei imperi, dai babilonesi agli inglesi, è inoltre, ancora e soprattutto oggi, città della guerra e della pace, emblema della possibile divisione e riunificazione degli uomini. Gerusalemme è il crogiolo dove si esperimenta se le religioni e le culture messe accanto stanno insieme o esplodono. È il sacramento con cui ci si giura la pace o la guerra e non solo per la Palestina.

Nella storia di Gerusalemme c’è sempre stata l’alternativa fra l’incontrarsi e lo scontrarsi, fra lo spartire e il partire. Da un lato la convivenza durata, nonostante tutto, secoli. Dall’altro le tante diaspore. Dall’esodo degli ebrei al tempo di Tito alla fuga dei centomila musulmani al tempo della guerra dei Sei Giorni mezzo secolo fa. Gerusalemme è il Sancta Sanctorum per gli ebrei, i Luoghi Santi per i cristiani, la «santa» (Al Quds) per i musulmani. È troppo santa per rappresentare solo un governo e ministeri e ambasciate. È proprietà spirituale di troppi popoli. E usarla solo per Israele vuol dire in fondo rimpicciolirla, impoverirla, ignorarne la potenza, la vocazione,il destino. Il suo compito vero è quello di essere non solo la più importante scommessa di pace non solo per il Medio Oriente, ma per mondo. Lì in quel trivio a cui si arriva dall’Asia, dall’Europa e dall’Africa si scontrano o si incontrano ancora e soprattutto oggi ebrei, cristiani, musulmani cioè religioni, culture, politiche di quasi cinque miliardi di uomini. È la maggioranza della umanità, come ben sapeva La Pira quando, con i Colloqui Mediterranei, affidava la pace nel nostro tempo a questa partita a tre.

Per tutto questo fino ad oggi c’è sempre stata una larghissima condivisione sul fatto che la città di Gerusalemme non fosse la città e tanto meno la capitale di un solo popolo. È importante ricordare che persino i sionisti pensarono a Tel Aviv e non a Gerusalemme come capitale del rinato Stato ebraico e a questo fine la costruirono. E nel 1947 i rappresentanti israeliani dell’epoca accettarono il piano dell’Onu sulla internazionalizzazione di Gerusalemme che non entrava nemmeno nella mappa dello stato ebraico che loro stessi avevano presentato a New York. E basta ripercorrere tutti i lunghissimi tentativi durati ormai settanta anni per cercare di raggiungere un accordo di pace fra israeliani e palestinesi per sapere che la questione dello status di Gerusalemme è stata sempre l’ostacolo principale, il sasso nell’ingranaggio che, anche all’ultimo momento, quando un accordo sembrava finalmente a portata di mano, ha fatto saltare tutto.

Oggi il riconoscimento di fatto di Gerusalemme capitale da parte di Trump è il modo più sicuro per sabotare in futuro ogni possibile accordo di pace. Gli arabi moderati, come il capo dell’Anp Abu Mazen, sono costretti a dare ragione alla intransigenza degli arabi più radicali rappresentati da Hamas e all’islamismo iraniano che paradossalmente Trump considera fra i suoi nemici principali. Perfino Erdogan, cioè un paese teoricamente facente parte della Nato, scende apertamente in campo contro la scelta americana e chiama a raccolta tutto il mondo islamico. Lo scetticismo verso il processo di pace non può che unificare il mondo musulmano intorno alla scelta violenta e impotente. E per questo destinata non avere fine ancora dopo tanti anni in cui si è cercata disperatamente e inutilmente la pace. E incredibilmente un presidente americano, che a parole considera la lotta al terrorismo il suo obbiettivo principale, tanto da sigillare per questo le sue frontiere, con questa scelta spinge le masse del mondo musulmano verso l’estremismo e riduce enormemente la distanza che tanto faticosamente in questi ultimi anni si era riuscita a costruire fra musulmani moderati e i terroristi dell’Isis e di Al Kaeda.