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Indulto e amnistia: non si scherza con chi soffre dietro le sbarre

Non è di una girandola di parole che abbiamo bisogno, alle prese con una situazione di allarme rosso e di emergenza in cui il nostro sistema punitivo ha scavalcato di gran misura la soglia della crudeltà, e il suo carattere disumano e torturante sta scritto e stampato in nero dentro le sentenze della Corte europea dei diritti umani.

Questa inciviltà, di cui si parla da anni, e che è cresciuta negli anni, deve cessare. Non fra chissà quando, ma subito, più presto che si può. E quelli che scuotono la testa in anticipo dicendo che «tanto non serve a niente» non possono far finta di non sapere che l’Europa ci sta aspettando al varco, a scadenza di pochi mesi, per la valanga di ricorsi che chiedono la condanna dell’Italia (scontata, imminente) e che frattanto sul piano morale e civile agli occhi del mondo il nostro Paese appare barbaro tra i più barbari, applicando trattamenti umilianti e disumani.

L’indulto è qualcosa che scorcia la pena, in una misura fissata. Visto cos’è la pena in concreto che si soffre nei gironi infernali delle carceri nostre, scorciarla è oggi semplicemente una equazione aritmetica di giustizia, non di indulgenza. L’amnistia invece spazza via il reato, e dunque neppure lo punisce; ma è ovvio che l’amnistia non si applica a ogni genere di reato, dipende giustamente da che cosa si decide di separare dal resto. Vi sono reati «minori» per i quali il carcere è reazione sproporzionata, e per i quali in futuro si dovrebbe pensare «de plano» a pene alternative.

Alcuni dicono che le leggi di clemenza sono troppo frequenti. In realtà, l’ultimo indulto risale a sette anni fa, l’ultima amnistia a 21 anni fa. Qualcuno mette l’enfasi sul fatto che l’indulgenza, applicata a chi ha violato la legge penale, è diseducativa, perché non si saprebbe come spiegare alle giovani generazioni il senso della «legalità» se poi non si è coerenti nella punizione. Forse bisognerà spiegare agli educatori delle giovani generazioni che questo tipo di punizione da cui alcuni vogliono allontanare l’indulgenza è esso stesso il massimo della illegalità, tanto che il giudice europeo dei diritti umani l’ha bollato come tortura.

Una legge di clemenza è necessaria e urgente per allentare il cappio. Poi bisogna progettare il futuro «ordinario», ricondotto nell’alveo del progetto costituzionale. Il carcere non è l’unica pena, anzi la Costituzione non lo menziona neppure, e dice che la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Vanno dunque favorite le pene alternative. Ma non perché sono meno dolorose, meno afflittive. Non è il «far male» lo scopo della pena,  non è dare dolore, sofferenza, angoscia, vergogna, disperazione. La Costituzione ha scelto come scopo della pena «la rieducazione del condannato». Se riuscissimo a capire come si rovescia il da farsi, per raggiungere questo scopo, e quale miglior risultato è l’emenda e il suo vantaggio sociale, rispetto alla costruzione di nuove carceri (ancora per la  segregazione degli uomini-scarto), cesseremmo la follia di amministrare un inutile e indegno dolore.

Certo, rieducare è difficile. Occorre più cuore che sferza. Una misurata indulgenza, chiudendo la stagione della passata disumanità, sarebbe un segnale di speranza e di impegno civile.