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Iran, quando la ruota della storia gira al contrario

di Romanello CantiniLa dichiarazione espressa pubblicamente dal presidente iraniano Ahmadinejad per cui «Israele deve essere cancellato dalla carta geografica» ha suscitato giustamente indignazione e proteste. A qualcuno questo proposito può addirittura aver fatto tornare in mente il discorso di Hitler al Reichstag del 30 maggio 1939 in cui si prometteva «la cancellazione della razza ebraica in tutta l’Europa».

Per l’esattezza il rifiuto di Israele da parte del mondo arabo e islamico ha sempre riguardato lo stato ebraico in quanto tale più che la sua popolazione in quanto tale di cui almeno formalmente si accettava l’esistenza dentro un unico stato palestinese. Questo rigetto di Israele da parte del mondo che lo circonda è purtroppo di lunga data ed era in passato molto più condiviso dai governi dei paesi islamici di quanto non lo sia oggi.

Fin dal momento della nascita di Israele tutti gli stati arabi erano unanimi nel voler eliminare l’esistenza della neonata «entità sionista». Poi venne la pace dell’Egitto con Israele. Poi quella firmata dalla Giordania. Infine il riconoscimento di Israele da parte della Organizzazione per la liberazione della Palestina con gli accordi di Oslo del 1993. Infine il piano di pace presentato dalla Lega araba due anni fa prevede la esistenza di Israele accanto ad uno stato palestinese. Se le parole del presidente iraniano hanno suscitato allarme è perché fra l’altro tendono a far girare a ritroso la ruota della storia del Medio Oriente degli ultimi decenni. Anche se minoritarie persino nel mondo islamico, le posizioni di Ahmadinejad minacciano in primo luogo la leadership di Abu Mazen sul movimento palestinese, il quale, anche per questo, ha protestato per primo se non altro perché il massimalismo che soffia da Teheran può alimentare il movimento palestinese di Hamas che ha idee non molto diverse da quelle del presidente iraniano e che si presenta alle elezioni legislative palestinesi del prossimo gennaio con buone possibilità di successo soprattutto se nel frattempo non verrà riaperto un dialogo bloccato.

Ma i progetti del presidente iraniano hanno creato preoccupazione perché è forte il sospetto che nel frattempo l’Iran stia lavorando per darsi un armamento atomico quando già è in possesso di missili capaci di raggiungere anche Israele.

Il governo iraniano può essere dissuaso dal procedere su questa strada troppo pericolosa con il dialogo e con la pressione che già cercano di esercitare l’Europa, insieme alla Russia e alla Cina.

Ma probabilmente, nonostante il silenzio che generalmente copre questo argomento, Teheran può diventare più ragionevole se nel frattempo si riprende anche il discorso globale sull’insieme di tutti gli armamenti atomici esistenti sul pianeta. Anche dopo la fine della guerra fredda e un primo parziale disarmo delle due superpotenze dopo gli accordi fra Bush senior e Eltsin di quindici anni fa, gli Stati Uniti possiedono ancora 4500 testate nucleari e la Russia 3800. Gran Bretagna, Francia e Cina hanno qualche centinaio di testate a testa. India e Pakistan, che sono entrate senza provocare troppo scandalo nel club delle potenze nucleari sette anni fa, ne possiedono meno di un centinaio. Israele e la Corea del Nord, pur avendo armi nucleari che si contano sulla punta delle dita, non nascondono più i loro scheletri nell’armadio. In genere ogni testata atomica delle grandi potenze ha una potenza distruttiva pari a venti volte quella scatenata su Hiroshima sessanta anni fa.

Non è un caso se quest’anno il premio Nobel per la pace è andato all’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA) e al suo direttore Mohamed El Baradei che ha il compito di arginare quella proliferazione delle armi nucleari che paradossalmente sembra crescere con la fine della guerra fredda. Ma anche il famoso trattato di non proliferazione di quaranta anni fa prevedeva licenze per un uso dell’uranio a scopo civile e insieme una promessa di disarmo anche da parte delle grandi potenze.