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Islam, gli pseudocaliffi di oggi somigliano ben poco ai veri califfi di ieri

«Dio portò dalla regione del Sud i figli di Ismaele per liberarci mediante loro dai Romani». I figli di Ismaele considerati qui come liberatori sono gli arabi musulmani. I Romani considerati come oppressori sono i cristiani bizantini. Chi scrive queste cose è il patriarca cristiano siriaco Michele detto il Grande, che così commenta la conquista araba della Mesopotamia alla metà dell’ottavo secolo. Al momento dell’arrivo dei musulmani, molti cristiani del Medio Oriente ritennero che la loro situazioni non era peggiorata rispetto a come erano trattati sotto il precedente dominio bizantino. Queste dichiarazioni di cristiani che hanno subito direttamente le conquiste arabe dei primi grandi califfi e ne sottolineano in genere la tolleranza è importante ricordarla soprattutto oggi che in Iraq e in Siria ci sono dei fanatici che, sotto il pretesto del cosiddetto nuovo califfato, credono che seguire le orme dei vecchi califfi significhi costringere i cristiani a scegliere fra la conversione all’Islam e la morte. Di riflesso fare un po’ di chiarezza storica servirà a rinfrescare le idee anche a chi in Occidente pensa che i rapporti fra cristiani e musulmani siano sempre stati un incrociarsi di spade e di scimitarre  destinati a continuare con le armi sofisticate del nostro tempo.

A simili attestazioni di tolleranza rilasciate ai primi califfi possiamo anche fare lo sconto dovuto al fatto che i cristiani del Medio Oriente dell’epoca erano monofisiti, melchiti, nestoriani o giacobiti e mostrarono una certa simpatia per i nuovi venuti anche perché si sentivano perseguitati dai bizantini che li consideravano eretici. Ma in genere anche i fatti storici confermano una conquista che alla fine si risolse non con la soppressione dei cristiani né con la loro conversione forzata, ma con un accordo di convivenza fra conquistatori arabi e capi religiosi cristiani a cominciare dalle due città che dovevano essere capitali del califfato. Nel 635 Damasco fu consegnata al generale musulmano Walid dal vescovo Melchita Sarjun con un patto in cui si prometteva ai cristiani «sicurtà per la loro vita, le loro proprietà e le loro chiese». E ai cristiani della città fu concesso un tale grado di libertà che il nipote di Sarjun, quel Giovanni Damasceno riconosciuto oggi dottore della Chiesa, fu di fatto ministro delle finanze del califfo Mu’awiya ( 661-680) e poté in seguito scrivere il suo Libro delle eresie in cui si condannava la religione musulmana.

In genere ci fu rispetto per le chiese esistenti anche se non era permesso costruirne delle nuove. Secondo il famoso racconto che ci ha lasciato il cronista cristiano Eustichio, figlio del patriarca melchita di Alessandria, quando nel 637 il califfo Omar entrò a Gerusalemme il patriarca Sofronio gli andò incontro e gli fece da Cicerone nel fargli vedere la città. E quando il patriarca invitò il califfo a pregare nella chiesa della Resurrezione Omar rifiutò perché, disse, non voleva che si facesse della chiesa una moschea con il pretesto che ci aveva pregato il califfo. Tre anni dopo Ciro, il patriarca di Alessandria, fu addirittura accusato di connivenza con i musulmani per avere in pratica quasi concordato con loro la presa della sua città.

Nonostante la loro condizione di inferiorità dovuta al loro statuto di «dhimmi» i cristiani godettero di una notevole intraprendenza sotto il governo dei primi califfi. Proprio sotto il califfato di Bagdad si ebbe nell’ottavo secolo forse il maggiore esempio di reciproco rispetto fra musulmani e cristiani. A Bagdad il patriarca nestoriano Timoteo I (728-823) ebbe rapporti di amicizia con il califfo Al Mahdi e con suo figlio Harun ar-Rashid, quello, per intendersi, che inviò un elefantino in regalo a Carlo Magno a dimostrazione del fatto che in questo periodo i rapporti anche fra principi musulmani e principi cristiani non erano proprio quelli che poi saranno raccontati nella Chanson de Roland.

Sotto i califfi di Bagdad i cristiani poterono non solo professare la loro fede, ma anche difenderla. Al Madhi chiamò Timoteo I a discutere con lui a lungo di islamismo e cristianesimo e il fatto che ognuno rimanesse alla fine della stessa opinione non incrinò i loro rapporti. Sotto il califfato degli abbassidi di Bagdad cristiani nestoriani e giacobiti, esperti di greco perché considerata lingua del Vangelo, tradussero in arabo molte opere della lingua di Aristotele a cominciare dalla medicina ed è noto che i califfi si facevano curare quasi sempre da medici cristiani. Ma molti arabi cristiani, sconosciuti ai più, ma ben noti agli storici, poterono dare vita in quel periodo non solo ad una grande cultura laica e scientifica, ma addirittura ad una apologetica cristiana spesso anche in polemica contro l’Islam senza che per questo dovessero soffrire per le loro idee.

Fra questi scrittori cristiani sotto il dominio musulmano il teologo Abu Qurrah, nato ad Edessa e morto intorno all’802, potè scrivere ben dodici trattati in difesa del cristianesimo. Il teologo siriano Abu al Basri (800-850) scrisse il Libro delle dimostrazioni e il Libro delle domande e delle risposte, come importanti opere di apologia cristiana in polemica contro l’Islam. Sempre nel nono secolo Habib Abu Ra’ita al Takriti, vescovo siriano di Tikrit, potè scrivere un libro di difesa della Trinità contestata dai musulmani.

Questa tolleranza ebbe le sue interruzioni e anche le fasi di aperta persecuzione come accadde in Egitto con l’Iman Al Hakim (985-1021) e soprattutto a partire dalle Crociate quando tuttavia non si può dimenticare che l’imperatore cristiano ortodosso di Bisanzio fu al fianco del Saladino contro i cristiano-latini di Occidente.

In sostanza a ben guardare se si potesse fare un rewind al nastro della storia per tornare alle origini, come vorrebbero oggi i fanatici dell’Isis, non si incontra l’Islam fatto tutto di tagliagole, ma forse la fase più tollerante della storia dell’islam, fatte salve le terribili leggi di guerra dell’epoca che imponevano, ad esempio, il massacro degli abitanti di una città che non capitolava e la schiavitù dei prigionieri di guerra e che purtroppo erano osservate da musulmani e cristiani.

E tuttavia ricordare questa vera storia dell’Islam primitivo può contribuire a far capire al mondo islamico di oggi quanto il pseudo califfo Abu Bakr di oggi poco somigli al vero califfo Abu Bakr di ieri. D’altro lato chi non è musulmano può convincersi che il rapporto fra l’Islam e le altre religioni non è stato e non sarà sempre, come purtroppo spesso si crede, il conflitto manicheo fra il male e il bene condotto con le armi e destinato solo a finire con la fine del mondo.